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Io, l’altro giorno, mi sono sentita dire che il mio pensare con nostalgia al fatto di poter fumare ovunque, in Egitto, faceva di me “una sudafricana bianca che rimpiangeva di avere perduto il privilegio di potere abusare impunemente del prossimo.
Ellamadonna.
E questo te lo dicono persone con cui dovresti avere delle affinità.
Pensa un nemico, cosa ti può dire.

Io mi sento spesso un po’ a disagio, nel mondo. Ultimamente, di più.
E pensavo che il filo conduttore del mio disagio è sempre lo stesso, dopo tutto: il malessere che provo davanti a significati che si confondono, si mischiano, vengono artificialmente spinti fino all’estremo confine del senso che possono avere per poi ricadere a terra esausti, privi di forza, totalmente svuotati.
Appiattiti.

E quindi, vista da sinistra, la sigaretta di una povera crista è moralmente sanzionabile tanto quanto l’incarcerazione di Nelson Mandela.
Il risultato, da destra, è che l’incarcerazione di Nelson Mandela merita la stessa, identica indignazione della sigaretta di una povera crista.
Ed è tutto un po’ così, mi pare.
Nei giornali, nei discorsi, nell’aria.
Una generale, festosa predisposizione a fare a meno delle proporzioni, nell’attribuire senso alle cose.

Nel mio piccolo, mi sento un po’ una spugna che assorbe atmosfere ed ho il filtro difettoso, non riesco a regolarlo.
Sono più o meno annichilita in questo enorme collegio bigio, quindi, sotto questa pioggerellina di piccole e costanti infelicità che non sono nemmeno necessariamente mie ma che, comunque, mi impregnano.
E’ come se fossi intossicata, gonfia, priva di energie.
Mi guardo allo specchio e mi spavento, invecchio di un anno al minuto.
Ed è una situazione un po’ senza uscita, mi pare: non riesco a trovare la spinta ad adattarmi perché sono comunque qui per andarmene. Peccato che, se intanto non mi adatto, sarà difficile organizzare come si deve il prossimo espatrio.
Sarà difficile persino arrivarci viva, santo cielo.

Il mio indice di misantropia, che ha sempre goduto di ottima salute, ha ormai raggiunto vette da fucile alla finestra.
Trovo tutto un po’ terrificante e, fondamentalmente, voglio stare sola per paura di dovere fare fatica, mediare, ripescare la regola che ho scordato, rimettere i piedi in queste scarpe chiuse invernali a cui ripensavo con terrore due mesi fa, quando immaginavo come sarebbe stato il rientro e lo sapevo, che sarebbe stato come vivere con le scarpe strette.

Ripensavo a una conversazione di quest’estate sul mal d’Africa, il mal d’Egitto e queste cose, e al navigato signore che era con me e che mi diceva:

Non ci posso più vivere, in Italia. Quest’estate ero a Piacenza e dovevo parcheggiare la macchina nel posto Tal dei Tali. Ed è cominciato che lì non la potevo parcheggiare, che dovevo spostarmi più in là ma da quella parte non potevo passare, che se facevo il tal giro era proibito ma era proibito pure al contrario e, guarda, non so cosa mi ha preso ma, a un certo punto, ho girato la macchina e me ne sono andato da Piacenza. Non ho più parcheggiato, non sono andato all’appuntamento. Ho lasciato la città.

L’unica via d’uscita, forse, è darsi un’organizzazione di tipo monastico.
Definire bene i confini di una personale autodisciplina e starci dentro.

Una deve essere consapevole dei propri limiti: io, al momento, non sono in grado di interagire con ciò che mi circonda se non a piccolissime dosi.