Ripenso, da giorni, al volto di questa donna:

bella.jpg

Questi occhi enormi, sproporzionati, e i capelli che, lo so, sono spessi come corde, forti, duri, ammorbiditi da litri di olio, di crema, di cose da mangiare (mandorle? Uova? Olio d’oliva?) usate per la cosmetica.

E, sotto, la didascalia:

Nazzal-Batayneh: “Blood and remains were everywhere”

E io la guardo e penso: “Ma quanto è bella, madonna.”
E lei racconta: “C’erano sangue, resti umani e capelli ovunque.”

E io sono a scuola, cammino per i corridoi e mi vengono in mente i suoi occhi e le mie alunne che, quest’estate, mi raccontavano delle canzoni tradizionali arabe che li descrivono in mille modi, gli occhi delle donne, e poi si mettevano le mani davanti alla faccia, a mo’ di velo, per farli risaltare e spiegarmi il perché dell’ossessione di questi cantanti, e l’unico maschio della classe sorrideva un po’ intimidito, come fanno i ragazzi quando sono in minoranza in mezzo a un mare di femmine che parlano di sé.

E questa della fotografia mi insegue, con questi occhi da figlia di generazioni di veli e questa bellezza imperfetta e totale, e mi racconta del matrimonio in mezzo a cui è esplosa la bomba.
Un matrimonio di arabi, l’obiettivo di una vita, l’incubo di speranza di tutti i miei studenti: “I soldi per sposarsi, ci vogliono i soldi per sposarsi, non ho i soldi per sposarmi, il ricevimento, la casa per lei, l’oro per lei, i mobili, tutta la mia vita, prof.”)
Tema: “Che obiettivi hai per dopo la laurea?”
Svolgimento: “Trovare un lavoro che mi permetta di sposarmi, prof.”

Ripenso alle prostitute del Cairo, tutte velate per non essere riconoscibili, e tutto quel rimmel, le ciglia infinite, quegli occhi lunghissimi dell’Egitto, e il mio amico sconcertato su un calesse sfrecciante con la coppia (lei tutta coperta di nero, lui cicciotello)che aveva fatto volare via i veli e scopava dietro di lui sobbalzando assieme al calesse che sobbalzava nella corsa, tra le buche della città.

“C’erano sangue, resti umani e capelli dappertutto.”

Poi c’era una donna senza le gambe e senza la carrozzella e senza nemmeno la tavoletta di legno con le rotelle che si usa lì, al posto della carrozzella, e camminava trascinandosi con i gomiti, velocissima, per le vie del Khan al Kalili.
L’ho vista e poi rivista, di anno in anno, e poi non l’ho vista più.
Non credo che si viva molto, a camminare grazie ai gomiti per le strade del Cairo.
E ce n’era un’altra che avrei sempre voluto fermare perché sono sempre stata certa che fosse europea, giovane e bionda e con gli occhi azzurri e la pelle bianchissima, sotto lo sporco e gli stracci, e pure lei la vedevi scalza per le vie dietro il Khan.
Forse una tossica, una fricchettona persasi vent’anni dopo nel paese meno adatto ai fricchettoni che si possa immaginare, uno dei più pericolosi per i tossici della nostra parte di mondo e, sennò, chiedilo a quella che era ancora in galera quando sono partita, per il mozzicone di una canna, mi dicevano, una siringa vuota e l’imperdonabile sciocchezza di essersi fatta notare.
E le serviva una stecca di sigarette Cleopatra alla settimana per comprarsi il diritto di condividere un materasso singolo buttato per terra, e sennò dormiva sul pavimento.
Senza godere della solidarietà toccata a Jose Juan, invece: tassista, trafficante di eroina e poeta, Jose era l’unico spagnolo in carcere in Egitto, lo era da anni e non c’era verso di farlo liberare e, allora, la Spagna ufficiale trovava il modo di essergli comunque vicina e mi raccontava il Tale che, per esempio, il cibo che avanzava nei ricevimenti del Cervantes, metti, veniva spedito a Jose il giorno dopo.
Cose così.
Poi pare che Moratinos se lo sia definitivamente portato via, il giorno dei funerali di Arafat.
E io chiedevo al Tale: “Ma come mai voi siete così solidali, con il vostro detenuto, e noi con i nostri lo siamo meno?”
E lui: “Perché voi ne avete tanti… il nostro è uno solo e tutti gli vogliamo bene.”

Mi sa che ho perso il filo.

E poi c’era Ester, anche se non si chiamava Ester, e veniva dall’Austria, anche se non era l’Austria, ed era l’amante del marito di una sua connazionale, nel piccolo mondo di questi nord-europei del Cairo, e il sultano conteso era egiziano, manco a dirlo, leggero e civettuolo e a suo agio, nell’harem biondo che si era creato, ché forse aveva l’impressione di stare tra donne moderne, evolute, occidentali, e credo fosse felice, coi suoi bimbi e la moglie bionda ed Ester che si era comprata un furgone, in Austria, lo aveva caricato della sua roba e lo aveva guidato fino al Cairo qualche anno prima, sbarcando ad Haifa, attraversando Israele e poi buttando il passaporto una volta giunta a destinazione, ché metti che le fosse venuta voglia di andare in Siria come avrebbe fatto, con quel timbro lì?
Bionda e minuta, Ester, sportivissima e sempre con la sigaretta tra i denti, che guidava il suo furgone per il Cairo bruciandosi i rossi ed era sempre in guerra con la moglie del sultano e a volte mi telefonava sbronza, di notte, in lacrime, per dirmi che lui era andato a una cena con la moglie, il maledetto.

Poi un pomeriggio la chiamo, le chiedo come va e lei: “Eh, sono in pieno marasma, la moglie si è suicidata”.
Ed io: “Oh my God!!!”
E lei: “Mah, guarda, è un’ottima notizia. Io credo nel libero arbitrio, lei soffriva molto per la situazione e ha fatto ciò che riteneva giusto e queste scelte vanno rispettate. Inutile essere ipocriti. Anche se è stata egoista con i suoi figli, quella donna. Del resto lo era, egoista. Pensa a come non mi tollerava. Sì, Mohammed è scosso, ma vedrai che appena rimango incinta gli passa. Vita nuova.”

Non era una tenerona, Ester.
Ed io mi immaginavo Mohammed, triturato dalle sue due nordiche, evolute, moderne e bionde, e me lo immaginavo senza fiato e strutturalmente incapace di prevedere nulla di simile.
E scrissi un post che si intitolava Sturm und Drang e che, come spesso mi capita, non pubblicai.

Lo concludevo così:

Non mi dilungherò sulla questione.
Volevo solo dire che, qualora ci fossero delle giovinette in ascolto, prendano nota: mai, ma proprio mai suicidarsi per queste cose. Se pensate che la vostra rivale si impressioni, state fresche: è più facile che corra gioiosa verso il più vicino negozio di abiti da sposa, leggera come chi si è tolta un debito dalle spalle. E’ giusto che lo sappiate.

Non mi stancherò mai di ripeterlo: la signora accorta ripone i barbiturici, in queste occasioni, e impugna il numero di telefono dell’avvocato de’ Fetentis. Se sipario deve essere, che cali mentre vi allontanate verso l’orizzonte munite dei beni mobili ed immobili dell’uomo che avete talmente amato da poterlo dimenticare solo ai Tropici, e dilapidando i suoi risparmi in daiquiri e giovanotti abbronzati.

Non ve lo scordate, segnatevelo, fatevi un memo.
Tatuatevelo, anzi.

Rileggendolo stasera, mi pare un appello sempre valido: lo lascio qua, non si sa mai.

Ho, decisamente, perso il filo.

Pensavo che ci sono un mucchio di cose che non puoi fare, se sei troppo delicato.

Pensavo alla veranda del ristorante greco di Downtown e alla donnola che ci correva sulla testa, saltando sulle assi del pergolato, e noi temevamo che perdesse l’equilibrio e ci finisse nel piatto e mangiavamo formaggio fritto abbastanza divertiti dalla prospettiva di aggiungerci una donnola, e Pepe raccontava di quando si svegliò una notte, vicino ad Alessandria, e aveva topi nella stanza, nel letto, in faccia e tra i capelli e lo si vedeva ancora turbato, mentre lo raccontava, e io potevo raccontare solo di un unico scarafaggio che mi aveva camminato in faccia, mentre lo ascoltavo, e mi sentivo un po’ così.
Poi, di recente, anche un’altra persona mi ha raccontato di essersi svegliata in mezzo a topi che se lo volevano mangiare, e pensavo che tendo ad avere un buon rapporto, con chi ha un’aggressione di topi nel proprio curriculum.

Jose mi ha scritto tre giorni fa dicendomi: “Mandami il tuo numero di telefono. Qui è arrivato il freddo e non ci sei.”
Tre giorni fa non era il momento.
Gli rispondo adesso.

Non è che abbia perso il filo.
E’ che c’è sicuramente, un filo che unisce ‘ste cose a cui penso stasera, ma non ho la minima voglia di cercarlo.

Ah, a proposito, P.S.: mica mi ha risposto nessuno, a questo post qua.
No, per dire.
Intanto, se ne è andato a cercare lavoro a Reggio Emilia, il giovanotto.
Sì, emiliani: sto cercando di dirvi qualcosa.