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Niente di particolare da dire sulle sorti dell’italico governo. O meglio: potrei ribadire che, a mio parere, il problema di questo paese è un rapporto molto sfilacciato con la realtà a tutti i livelli, ma sarebbe un understatement: faccio prima a dire che la realtà non esiste proprio, da ‘ste parti, o comunque che non solletica abbastanza l’arzigogolato sentire patrio.
Ci sono paesi teoricamente molto meno avanzati di questo dove, tuttavia, parlare di politica significa riferirsi a cose vere.
Io, qui, questa sensazione non ce l’ho mai.

Riflettevo solo sul fatto che – ed è buffo – non ho nemmeno certezze granitiche sull’Afghanistan: una conosce le cose attraverso le proprie fonti, e tra le mie c’è Elisa Giunchi che ne è una studiosa parecchio rispettabile e che, sulla lista Apriti Sesamo scrisse, tempo fa, la seguente considerazione:

Diffondo, seppure io sia personalmente contraria al suo contenuto, un appello inviato alla lista da Enrico Galoppini, in cui si chiede il ritiro dei soldati italiani. Sebbene la
soluzione militare debba essere affiancata da altre vie, e sebbene siano stati fatti diversi errori
nella conduzione delle operazioni militari, a me sembra che, nella situazione attuale, il ritiro avrebbe conseguenze disastrose per il paese. Lo ritengono le stesse forze politiche di opposizione, a parte alcune frange radicali legate ai talibani. Noto poi che chi, animato
indubbiamente dai migliori propositi, chiede il ritiro è sempre silenzioso sulle soluzioni alternative: se si lascia il campo a forze violente che godono di finanziamenti rilevanti legati al narcotraffico, a reti transnazionali estremiste e al beneplacito di settori militari e di intelligence del Pakistan, come favorire lo sviluppo sociale, la ricostruzione e il rispetto dei più elementari diritti della popolazione?

Ricordo qualche racconto horror di cooperanti spagnoli che erano stati da quelle parti. Uno mi diceva che quello era un lavoro in cui era facile farsi assumere. Una meta poco richiesta, persino in quell’ambiente professionale.
Certo che se poi ci si mette a parlare di farci le chiese, in Afghanistan, al dubbio si aggiunge l’avvilimento. Ma, appunto, poi finisce che mi rimetto a parlare di rapporti sfilacciati con la realtà e siamo daccapo.

Mi diverte di più darmi alla mondanità, in questo periodo.
L’altro giorno ho solennemente deciso che sarei diventata socievole. Detto fatto, adesso posso attribuire un nome a un mucchio di frequentatori del centro storico che prima risultavano delle macchioline indistinte al mio pensieroso sguardo di tizia che tende a farsi i fatti propri, e che adesso invece sono diventati Giovanni, Michele, Francesco e così via.
Era anche ora, del resto.
Poi dicono che i genovesi sono scontrosi.
A me sembrano infinitamente più socievoli di me: sono qui che cerco di prendere esempio, non a caso. Ché l’alternativa è diventare un orso bruno, riflettevo. Coi peli e tutto. No, dai.
La ritrovata socialità, del resto, è anche un buon motivo per rimettermi a cucinare. Cosa che, ricordo benissimo, mi piaceva assai.
Si ingrana a tappe, qui, ché un anno e mezzo senza quasi toccare una pentola ingolferebbe chiunque.
L’altra sera: “Uff, volevo fare la torta di mele ma non ho fatto in tempo”.
Ieri sera: “Ehi, ho fatto anche la torta di mele, stavolta ci sono riuscita!”
E l’amica, spietata: “E la crema di accompagnamento? Dov’è la crema di accompagnamento?”
Forse la terza tappa sarà quella buona, per dare da mangiare un dolce completo alle vittime dei miei ritrovati intenti culinari.

Per Genova circolano spiritelli di ironica smagatezza tirata fuori con la faccia seria che mi piacciono assai e che alleggeriscono le situazioni più diverse.
L’altra notte c’era un anglofono ubriachissimo, in piazza, che rompeva fortemente le scatole tra i tavolini dei bar. E c’era un po’ di gente parecchio seccata che rifletteva sull’opportunità di picchiarlo.
E dico: “Ma no, ma perché?”
E uno, tutto serio, mi fa: “Ma guarda che gli conviene, essere picchiato da noi. Ché altrimenti finisce a rompere le scatole nei vicoli e gli va peggio. Qui gli faremo molto meno male”.
In effetti non gliene hanno fatto molto.
Misericordia zeneize.

Le cose più bizzarre, tuttavia, continuano a succedermi senza che io debba manco uscire di casa. Prendi ieri, per esempio.
Mi telefona un tale e mi dice che ha visto il mio annuncio all’università e che gli interessa prendere lezioni private.
“Bene”, dico io.
E lui: “Sa, io ho trentaquattro anni, sono indietro con gli esami perché lavoro, bla bla”.
E io: “Sì, certo, capisco”.
E lui: “E poi, sa, io tendo a distrarmi. Durante le lezioni, per esempio. Quindi, se lei fosse un po’ severa sarebbe meglio”.
E io: “Oh… be’…”
E lui: “Sa, può anche sgridarmi se vuole…”
Ossantocielo.
Manco un’ora, e mi arriva un sms: “Buona serata e buon appetito, signora professoressa. Io sono molto cavaliere, mi è stato insegnato così da mia mamma.”

Ché poi, una, non sa più nemmeno come dirlo: “Sai, mi è successa una cosa strana…”
E Ivano, ridacchiando: “Un’altra? Senti, io comincerei a chiedermi perché…”
E io, disarmata: “Ma io…”
Gli ho fatto leggere l’annuncio: “Docente impartisce lezioni private”.
Pure ‘docente’, avevo scritto.
Nemmeno ‘professoressa’. ‘Docente’. Che più neutro è impossibile.
Evvabbe’.

Visto che sono diventata socievole, potrei andare dal mio vicino di casa e chiedergli se sa cambiare i fusibili ai frigoriferi.
Il mio ha smesso di funzionare ieri e, sulle istruzioni, c’è scritto che potrebbe essere il fusibile.
La mia impotenza, di fronte a una simile sciagura, è totale.

Così poi stasera, su un altro blog da qualche parte della blogopalla, apparirà un post in cui il perplesso blogger di turno racconterà che gli è piombata in casa una sconosciuta determinata a fargli cambiare un fusibile.
Al suo frigorifero.
Convinta, proprio.

Io lo faccio.