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Giovanni Giani era un amico, se si può chiamare amicizia quella strana cosa che a volte nasce attorno a internet.
Perché su internet l’istinto è come bendato: mancano troppe dimensioni alla comunicazione perché possa funzionare appieno. Bisogna avere un po’ di fortuna, per incappare in persone perbene, e lui lo era.

Giovanni era un mucchio di cose, oltre che una persona perbene: era complesso, divertente e irascibile, napoletano come me e come piace a me, con quel suo accento caldo e la risata pronta. E con molte, moltissime storie da raccontare, e una vita piena, densa, spesa con un capitale di passione che era contagioso e ti faceva sognare.
E riuscì a farmi sognare nei miei primi mesi a Milano, Giovanni, quando ne avevo un bisogno che non mi tenevo e quasi soffocavo, per la mancanza di sogni in cui mi ero cacciata: mi raccontava dei suoi mastini napoletani e me ne fece innamorare, ci furono mesi in cui non pensavo ad altro. Giravo con la mia bici e sognavo ad occhi aperti di averlo pure io, uno di quei cagnoni, e me li guardavo su internet e non so cosa avrei dato per mettermene uno nei miei 25 metri quadri di monolocale. E lui rideva, quando glielo dicevo, e me lo faceva sembrare persino possibile: “Tanto è un cane pigro, bisogna prenderlo a calcioni per farlo muovere. A casa tua dormirebbe sempre.” E io fantasticavo e già mi vedevo, proprietaria di un bestione ferocissimo e amorevole che mi avrebbe protetto da chissà quali terrificanti pericoli milanesi.

Se gli esseri umani somigliano agli animali che amano, in Giovanni il mastino c’era, eccome. Ed era protettivo, infatti. L’ho conosciuto così, in realtà. Per qualche volta in cui me l’ha offerta ed io l’ho accettata, la sua protettività internettiana, e per qualche altra volta in cui ha cercato di farlo ed io non gli ho dato retta. Sbagliando.
Sbagliando, eccome.
Aveva ragione lui, e non ho fatto in tempo a dirglielo.
Travolta dal mio marasma, l’ho perso di vista per qualche mese. Poi l’istinto mi ha detto che era arrivato il momento di cercarlo, di uscire dal mio ombelico e di chiedermi, e chiedergli, come stesse.
Ho fatto in tempo solo a salutarlo.

Giovanni metteva la gallina nel ragù, con mio grande scandalo. Ma “solo un pezzetto”, diceva.
Mi faceva sentire aria di casa parlandomi di Santa Lucia e parlandomi di Israele. Perché vedevamo il Medio Oriente dai due lati opposti, io e lui, ma condividevamo l’amore per quel pezzo di mondo, e ci capivamo per questo.
Era il mio amico sionista, Giovanni, e ne ridevamo e lui diceva che era, appunto, una questione di semplice amore.
Lui, per Israele, ci aveva combattuto. Poi si era detto che, per fare il servo degli USA, tanto valeva stare in Italia. E qui stava, con la sua passione politica e la coscienza delle contraddizioni, delle brutture del mondo, e il suo contributo a renderlo meno brutto.
Un’amicizia apparentemente improbabile, la nostra, e fatta di fiducia. E di chiacchierate-fiume al telefono, e di divertita complicità per tutte le volte che non eravamo d’accordo e lui si scaldava moltissimo e mi gridava dietro e io borbottavo: “Così imparo ad avere un amico sionista, gessù!”, e ci divertivamo. E lui si divertiva a fare il misterioso, col suo burrascoso e interessantissimo passato, e ci riusciva benissimo, e io mi divertivo a interrogarlo, a fargli miliardi di domande e a cercare di vedere il mondo dal suo punto di vista, ma lui diceva che, tanto, la verità era che noi lo vedevamo dallo stesso, identico punto di vista, il mondo.
Che eravamo in disaccordo solo in apparenza.
E aveva ragione, certo che sì.
Lo capisco adesso, più che mai.

Gli devo qualcosa: ha reso il mio ritorno in Italia più leggero, regalandomi la sua amicizia e alleggerendo, tanto, la mia malinconia.
Mi ha fatto ridere, mi ha regalato idee, mi ha proposto sogni, mi ha insegnato cose.
Mi è mancato, e mi mancherà.

Il mio amico sionista.
Una persona perbene.