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Ho voglia di raccontare.
Mi sembra di essere una che non scrive da un sacco di tempo e mi sento arrugginita, legata.
Rivoglio la mia libertà di scrivere: il blog come spazio di espressione, ché di questo si tratta.
E’ troppo tempo che medio con le circostanze.
Sufficiente.
Basta.

Ieri ho raccontato della porfiria perché me la sentivo arrivare, evidentemente.
Ed oggi, eccola: è da quando avevo 18 anni che, due o tre volte all’anno, mi tocca.
Comincia con delle contrazioni alla bocca dello stomaco che, nelle prime ore, si fanno sempre più ravvicinate, e lunghe e dolorose.
Fa proprio male, è il peggior mal di stomaco di cui io abbia notizia.
Ed è lunghissimo, dura giorni interi. E potresti contare, tra una fitta e l’altra: uno, due, tre, eccola. Tot secondi lancinanti, poi una pausa in cui ricominci a contare: uno, due, tre…
Una volta durò sei giorni, senza smettere mai.
Pessimo.

Quando te lo senti arrivare, quindi, imprechi.
Calcoli il tempo che ti manca prima di essere inservibile per te stessa e gli altri, e cominci a mettere l’acqua vicino al letto, a disdire gli impegni, a controllare se hai le pasticche più o meno palliative che mandi giù da anni chiedendoti se fanno davvero effetto o se te lo sogni tu, che ti fanno stare meglio. Se non ne hai, calcoli il tempo che ti rimane per andare in farmacia: nel giro di un’ora o due, sai già che solo immaginare di poterlo fare sarà totalmente fuori discussione, quindi tanto vale che ti sbrighi.

Curiosamente, si ha meno paura di quanta non se ne dovrebbe avere: tu sai per certo che vedrai tutte le stelle del firmamento, nei prossimi due o tre giorni, eppure più che altro sbuffi.
Entri in uno stato d’animo di incazzata rassegnazione.
Credo che sia una naturale difesa della psiche, ché la paura renderebbe il dolore meno tollerabile e, francamente, non è proprio il caso di complicarsi la vita, in quei momenti.
Tendo a prenderla con un sacco di calma, quindi.
Con un certo malumore, ché ci mancherebbe altro, ma sostanzialmente con calma.

E quindi oggi, per prima cosa, ho disdetto – assai a malincuore – la grigliata con annesso vino di Rioja a cui dovrei stare partecipando adesso, mentre scrivo.
E, per la prima volta nella mia vita, ho potuto dare un nome al motivo del mio forfait: “Mi sta venendo il mal di pancia da porfiria“, ho detto.
Non “un mal di pancia che ogni tanto mi viene, nessuno sa cosa sia ma so che fa male e passerà tra un paio di giorni“.
No.
Ed è un piacere, per una che crede nella forza e nel senso delle parole, potere chiamare una cosa del genere – tanto presente nella sua vita, e da tanti anni – col suo nome vero, riconoscendone l’identità: “Mi sta arrivando un attacco acuto di porfiria, ci sentiamo domani”.
Non lo avevo mai fatto.
Mi sono emozionata, come ad un battesimo.

Poi ho pensato che, adesso che sapevo cos’era, avevo davanti a me nuove possibilità di difesa.
Da esplorare.
Il sito internet segnalatomi dal Policlinico, quando mi hanno fatto questa interessante diagnosi, consiglia di prendere glucosio.
E così, con l’aria furbissima, mi sono messa due dita d’acqua in un bicchiere e quattro cucchiai di zucchero. Altro che il Rifacol di sempre. C’entra un cavolo, il Rifacol.

E poi, lampo di genio: “Ma scusa: ora che so cos’è, posso chiamare un medico…”
Erano venti anni che non lo facevo.
Da quando – dopo qualche speranzoso tentativo delle prime volte – mi ero rassegnata al fatto che, tanto, non lo sapevano, cosa diamine avessi, e tantomeno me lo sapevano curare.
Perché a soffrire in un pronto soccorso si sta molto, molto peggio che a casa. Vale la pena sobbarcarsi la sofferenza se, alla fine, hai il premio di essere curata. Ma se devi fare tutta quella fatica per sentirti dire: “Boh…” e farti dare dei farmaci più o meno a caso e sempre inutili, tanto vale starsene in pace e lontani dal mondo.
Ed io mi sono sempre isolata, alle prime avvisaglie.
Per venti anni.
E facendo benissimo, come la vicenda di Paula insegna.
L’istinto aiuta, certe volte, e la voglia di stare lontana dalle medicine prese a casaccio l’ho sempre avuta, grazie al cielo.

Però oggi, mentre seguivo le istruzioni del sito e mandavo giù la mia acqua e zucchero, ho cominciato lentamente a rendermi conto del fatto che, se questa cosa aveva un nome, aveva anche un contesto in cui essere portata.

Perché poi è buffo, il sito in questione: a leggere loro, pare che un attacco acuto di porfiria sia chissà cosa. Una roba che ti devi ricoverare, fare flebo e cose strane.
Mi ci sono sganasciata, la prima volta che l’ho letto, memore dei miei attacchi nel Sinai, nel deserto del sud della Tunisia, in un ostello di Gerusalemme Est, oppure ospite in casa d’altri come l’estate scorsa con Silke, da qualche parte a sud di Port Said. O chiusa in camera mia, semplicemente, ad imprecare in tutte le lingue del mondo.
A sentire il sito, invece, si direbbe che sia di porcellana, una con un attacco acuto di porfiria.
Si direbbe che abbia bisogno di assistenza medica.

Lampo di genio, quindi: ho chiamato il reparto del Policlinico di Milano dove si occupano di ‘sta cosa e, un po’ esitante, ho spiegato: “Sa, visto che me l’avete diagnosticata un paio di mesi fa e, quindi, è la prima volta che so cos’è, mi stavo chiedendo se per caso sapete pure cosa dovrei fare per stare meglio…”
La gentilissima dottoressa mi ha detto che mi avrebbe fatto rintracciare dalla collega specialista che era a casa.
Un quarto d’ora dopo, la specialista mi ha chiamato al cellulare: “Ha preso acqua e zucchero? Ottimo, ne prenda ancora. Approfitti finché è ancora in grado di mangiare per buttare giù dei carboidrati, è importantissimo. Pane, pasta, quello che può. Poi una Tachipirina da 1000. Stasera, un’altra. Se tutto questo non dovesse fare effetto, vada al pronto soccorso con la sua diagnosi e, mi raccomando, dica ai medici di controllare il sito, se non sanno di che si tratta. Io la chiamo domani mattina per sapere come sta.

Cioè: il Policlinico di Milano mi chiama domani mattina per sapere come sto.
Roba da matti.
Sono basita.

Sta di fatto che pare avere funzionato, tutto questo.
E’ stato prendere quel concentrato di zucchero e accorgermene subito, che mi faceva bene.
Non sono al pronto soccorso e non sono nemmeno a letto.
Non sono lì a contare le pause tra una visione di stelle e l’altra.
Sono al computer, un po’ pesta ma di ottimo umore per tutto lo scampato dolore della giornata, e schiaccio i tasti per fare bla bla.
Una specie di miracolo, mi pare.

Ho chiamato la Pupi per raccontarle tutto, ovviamente, e lei mi ha amorevolmente preso in giro a sangue: “Sì, già ti immagino, con una mano sullo stomaco e un sorriso da un orecchio all’altro, mentre ti senti tutta letteraria e speciale con la rarissima Porfiria!”
E, in effetti, io avevo il telefono in una mano, l’altra mano sullo stomaco e il sorriso da un orecchio all’altro, esattamente come da sua descrizione.
La conoscenza, tra madre e figlia, rende superfluo il videotelefono.

Insomma: tutto questo per dire che, nella mia vita, è cambiato qualcosa.
E non è una cosa da nulla.

Ho dato un nome a un problema e, col nome, sono venuti anche gli strumenti per fronteggiarlo.
Mi cambia la vita, e in meglio.
Decisamente in meglio.

Acqua e zucchero, era ciò che mi serviva.
Pensa te.
Dopo 25 anni di mistero, la soluzione era acqua e zucchero.
E del pane, prima di stare troppo male per poterlo mangiare.

Una reduce, mi sento.

E visto che succede a una persona su 75.000, ‘sta cosa che succede a me, tanto vale metterla sul blog, ho pensato.
Ci potremmo scambiare la ricetta dell’acqua e zucchero, io e gli altri tre al mondo a cui capita la stessa cosa.