Io non so se avete presente cosa può arrivare ad essere una lite tra madre e figlia.
E’ una cosa con molte parole, ecco.
Moltissime.
E le parole hanno un po’ il ruolo delle briciole di Pollicino e servono per non perdere del tutto la strada nel labirinto di specchi in cui si cacciano entrambe, la madre e la figlia, ogni volta che la temperatura emotiva si alza un po’ e loro corrono a prendere posizione nella trincea dell’estremizzazione di se stesse ed è quindi necessario essere diversissime, lì per lì, per poi alla fine ripercorrere a ritroso, con la cartina del “cosa è successo” in mano, tutto il percorso della radicalizzazione delle rispettive identità e tornare a capirsi, a essere complici e a somigliarsi pure. Un po’.

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Io, per dire, ho una figlia di cui tutti hanno detto, sempre, che era nata con una quantità di ormoni femminili spropositata.
E quindi è l’unico essere sul pianeta a tirare fuori il mio lato maschile, tutto quanto, e l’ultima volta che abbiamo litigato il mio argomento era: “Non scocciare. Stop.”
Perché non volevo parlare.
Perché io ero il mio spigoloso padre irpino e lei una femmina petulante, nel mio scenario, e sapevo che mi voleva sgridare, ed io detesto essere sgridata e poi dovevo scolare la pasta ed era ora di cena e, no, non avevo nessuna voglia di dibattere.
Il dibattito no.

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Il fatto è che non avevo fatto gli auguri di compleanno al suo fidanzato.
Ecco.
Perché mi ero scordata, ok?
E perché io sono poco attenta in queste cose, e guai se non vengono fatti a me, gli auguri di compleanno, ma tendo a considerare i compleanni degli altri abbastanza irrilevanti. Del resto, io sono nata a Capodanno e gli altri no.
E poi mi scoccio anche a fare i regali di Natale, io.
Cioè, non è che mi scoccio: è che proprio non ci penso.
A me il Natale sembra una data in cui bisogna fare da mangiare, non fare i regali.
Insomma, io non ho fatto gli auguri di compleanno a Isra, non l’ho considerato importante e non avevo nessuna intenzione di doverlo spiegare e tantomeno di dibatterne.
Ed avevo i fusilli sul fuoco, quindi: 12 minuti di telefonata e poi ciao, devo scolare la pasta.

Il mio argomento, in sintesi, era: “Non è importante avere ragione o torto, all’ora di cena. L’importante è cenare in pace.”
Mi sembrava inoppugnabile, e su questo ci siamo affrontate per 48 ore di fila.

E, no, non è passato, il mio argomento.
E’ successa un’iradiddio, più che altro, sfociata infine in un serrato confronto via email.
E meno male che non volevo dibattere…

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Io ti voglio bene, peró a volte sfuggi le situazioni che non desideri vivere senza pensare che sei parte di un insieme che non ti permette di farlo e farla franca.
[…] devi rispettare le mie emozioni e i miei sentimenti e dare loro il giusto peso, non quello che tu vuoi dare loro, ma quello che IO do a loro, che alla fine é ció che conta, quello che io credo di sentire. E siccome sei mia madre non puoi sfuggire i miei dispiaceri o minimizzarli in base a quello che tu credi dovrei vivere o il modo in cui dovrei viverli.

Non voglio né esagerare né drammatizzare, ma a volte il parlare tra noi si complica cosí tanto che da due frasi che sarebbero bastate si ramifica in una tragedia greca che io non posso non smembrare per esorcizzare tutto il non detto che potrebbe rimanermi dentro e farmi, se non male, inquietare. Non si tratta della chiamata, si tratta dell’importanza che le cose meritano.

“Ma non potremmo essere un po’ più superficiali??”, penso io.
E mi vengono in mente scene di incomprensione tra i generi, con le mogli che magari hanno tutte le ragioni del mondo e i mariti che le guardano affranti e gliene frega un cavolo, che abbiano ragione, mentre il sugo si fredda.
E capisco gli uomini, come in un’illuminazione, e me ne esco con la seguente risposta.

Sì, hai ragione.
Ma, all’ora di cena, avere ragione non è importante.
Il giorno che lo imparerai avrai completato il passaggio da bambina a donna.

Tua madre

Mi è parso che il vento lo portasse fino a Genova, l’ululato che deve avere emesso Pupina a Valencia dopo avermi letto.
Fossi stata là, suppongo che mi avrebbe addentato.
E mi riscrive incavolatissima accusandomi di mancanza di empatia.
Ed io, asciutta:

L’empatia non la susciti facendo la suocera o l’esattore del gas. Tutto qua.

E lei, furibonda:

Mamma, rileggi quello che ti ho scritto, prendimi sul serio e non rispondermi se é per cercare di farmi sentire una bambina. Credo che tu ti stia sbagliando.
Credo che il problema non sia l’orario, e il fatto che tu lo sottolinei di nuovo evidenzia che non hai capito quello che ti ho scritto, dato che il concetto, o problema, é sorto molto prima. […]
Non faccio la suocera, faccio la figlia che se la prende perché non la rispetti, e non é per la telefonata ad Isra: é perché dopo 5 anni e mezzo non hai ancora capito che la suocera sei, o dovresti essere, tu.

L’ultima frase è, dialetticamente, un colpo da maestro.
Non posso non notarlo.

Il pensiero successivo è: “Uh. Già cinque anni e mezzo??”

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Una deve saperle riconoscere, le sconfitte.
Qua, per quanto mi trincerassi, era evidente che ero in errore.
E mi è toccato uscire con le mani alzate, già.

Capire che si è in errore è relativamente facile.
La cosa veramente difficile, in genere, è capire cosa bisogna fare per smettere di essere in errore.
Lì ci vuole proprio lucidità, non è un affare scontato.

Io so che mi si sono fusi i neuroni, praticamente, ma alla fine ho capito cosa mi si stava chiedendo.
Sono stata a un pelo dal prendere appunti e dal buttare giù dei grafici, si sappia.
I mutamenti di prospettiva sono davvero complicati, viene pure un po’ di mal di mare.
Comunque, come una che tenta la soluzione di chissà quale problema matematico mostruoso, l’ho infine detto:

Be’, senti: io in effetti non l’avevo capito, che questi auguri potessero essere importanti per te. Ora che lo so, d’ora in poi glieli farò sempre.”

C’è stato un attimo di silenzio, dall’altra parte della cornetta.
E poi: “Oddio, non aggiungere niente altro. E’ perfetto così. Non dire niente, non fiatare, non rovinare tutto. E’ perfetto. E’ tutto quello che dovevi dire. Va benissimo. Ora cambiamo argomento, ma subito, prima di sbagliare!!

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Insomma: noi ci abbiamo messo 48 ore, per arrivare a questo risultato.
Con l’aggravante che ne siamo anche molto soddisfatte, entrambe.

Pensavo ad Isra, che di queste 48 e intensissime ore è stato muto testimone, se non per assicurare che lui non se l’era presa affatto, per i miei mancati auguri.

Ipotizzerei che a volte non gli sembriamo del tutto riposanti, nessuna delle due.