Torno adesso da una giornata passata all’ospedale di Melzo, hinterland milanese. Ora: gli ospedali difficilmente sono dei bei posti, ma questo di Melzo oltrepassa molti limiti, mi pare, e l’angoscia che mi ha trasmesso richiede due parole prima di andare a dormire.
I medici mi sono parsi bravi e l’intervento subito da una persona che mi è cara è andato bene. Del resto, se questa persona è finita ricoverata a Melzo è perché in altri ospedali milanesi si era trovata infinitamente peggio proprio dal punto di vista medico, recentemente, e pare che là, invece, il medico che infine lo ha operato fosse affidabile.
Solo che farsi operare sulla Luna (una Luna malandata, per giunta) non deve essere molto diverso. Perché sorge tra qualche palazzone e un discount e null’altro, l’ospedale di Melzo, e il deserto che ha attorno te lo ritrovi pari pari quando entri, ché non c’è nulla se non un immenso corridoio, odore di mensa malandata, una scala ingannevole che non ti porta ai reparti ma a una porta sbarrata con su un bigliettino scritto con la penna rossa che recita “Psichiatria” e, attraverso i vetri, volti tristissimi di vecchi e qualche donna giovane in pigiama, chini davanti ai rispettivi piatti in un refettorio vecchio e buio, e tu fai dietrofront e scendi alla ricerca della scala giusta per raggiungere la tua meta e trovi un ascensore, finalmente, ma l’ascensore si chiude con te dentro, sì, ma rimane là immobile, e riesci a riaprire le porte e ritenti ma sei sempre lì, a pian terreno, e passa un medico e ti dice, cantilenando: “Ci vogliono le chiaaaaavi….” e tu esci e, finalmente, trovi delle scale un po’ più nuove di quelle che ti avevano fatto finire a Psichiatria e stavolta sbuchi nel reparto giusto, meno male, dove delle infermiere col camice verde ma dei foulard in testa portati da casa, si direbbe, al posto delle cuffie sterili che ti aspetteresti, ti borbottano: “Sì, lo stiamo intubando.” “E quando potrò sapere qualcosa?”, chiedi tu, e loro: “Ah, tanto ci vedrà passare con la barella.”
Forse è il posto più allegro dell’ospedale, la sala d’attesa da dove vedi passare ‘ste barelle dirette verso la sala operatoria. Per il resto, vecchiume e reparti semibui, aria di sporco, infermieri che manco ti guardano, donne delle pulizie che spingono negli ascensori carrelli sobbalzanti da cui trabocca l’acqua con cui hanno appena lavato a terra. E finalmente riportano in camera la persona che ti è cara, appena operata, e la stanza è da tre e non c’è un paravento, nulla che ne tuteli uno straccio di intimità, e arriva un’infermiera mentre sei lì e gli solleva il lenzuolo facendogli, perentoria, non so quale domanda intima e tu scompari, fuggi letteralmente per sottrarlo all’imbarazzo della tua presenza, e ti pare di ricordare che un tempo, quando Milano era una città civile, i familiari venivano allontanati dalla stanza dei malati, prima di certe cose, e adesso, a quanto pare, non più. Del resto, faccio una gran fatica ad associare alla civiltà la Milano triste, sporca e squallida che ho visto in questi due giorni.
Nelle stanze ci sono dei tavolini che, un tempo, dovevano reggere delle tv. Ora, di televisori manco l’ombra. Non una tv, non una radio, niente. Penso al Gaslini di Genova, dove ho visto computer collegati a internet nella camera di piccoli degenti. Io me la ricordavo diversa, Milano. Ma cosa le è preso, che le succede? Perché bella non lo è stata mai, santo cielo, ma funzionante sì. Mi viene voglia di rapirla, la persona che mi è cara e che dorme in questa stanza squallida con la giacca del pigiama buttata addosso alla meno peggio, e di caricarmela su un treno e portarla da me, ché magari non saranno più bravi, a Genova, ma meno squallidi lo sono di sicuro.
Col medico, riesco a parlarci nel “bar” dell’ospedale. E’ una stanzetta a pian terreno, con dei tavolini di plastica da gelateria e una macchinetta che distribuisce merendine al posto del bancone. E’ gentile, il medico, e soddisfatto dei risultati dell’operazione. In fondo, a me interessa questo. Poi, la persona che mi è cara si sveglia e mi manda via: “Dai, vattene, non mi va che rimani in questo ambiente.” E’ reciproco, il desiderio di proteggersi dallo squallore.
Sono tornata a Genova come chi torna da Chernobil. E, lo ripeto, un tempo non era così, Milano. Che peggiorasse di anno in anno lo sapevo e lo scrivo da molto tempo, ma spenta come stavolta non l’avevo vista mai. E riconosco dell’affetto per lei, nell’angoscia che mi ha seguito fin qui e che mi impediva di dormire se non la buttavo fuori, almeno un po’. E’ un pezzo della mia vita, quella città, e una non si aspetta che le città invecchino.
Nel mese di febbraio sono mi stati operati figlio e marito. Uno ai piedi e l’altro al ginocchio. Operazioni ortopediche e di routine, per fortuna. Ma nella stessa settimana! Un bello stress. Meno male, però, che tutti e due gli ospedali sono stati molto accoglienti. Fa una grande differenza, è vero. L’ospedale le Fratte di Cortona sembra un albergo a quattro stelle. Allegro, panoramico, graziosi mobiletti colorati. Il figlio, poi, in un’elegante palazzina a piazza Indipendenza, a Firenze, perché il nuovo ospedale per bambini non è pronto. Tutti e due in camera singola, poi. Con questo commento smetto di lamentarmi, e inizio a compiacermi. Auguri per il tuo malato.
Io sono di Altamura (Puglia), ma ho deliberatamente deciso di partorire a Matera, non lontana città della Basilicata.
Normalmente si sceglie il medico, e di conseguenza l’ospedale, io ho fatto l’opposto – ho scelto l’ospedale, e poi il medico, e cmq mi è andata bene, il medico è stato bravo.
L’ospedale di Altamura, meglio, il reparto di Ostetricia/Ginecologia, ha camere a 6/4/2 letti, l’unica singola è per i raccomandati.
A Matera invece le camere sono tutte singole, tranne una doppia (io ho avuto la singola), è pulito, luminoso, le puericultrici sono mamme delle mamme, le infermiere fantastiche, i medici solleciti, e insomma, anche se alla fine ci passi solo 3 giorni dopo il parto, per me sono stati 3 giorni importanti e definitivi!
Auguri per il tuo caro operato.
Besos!
Ma quella che descrivi non è mica una città invecchiata santo cielo, è uno sfascio totale.
Spero che la persona che ti è cara si rimetta prestissimo non solo in senso assoluto ma sopratutto per poter uscire da quel buco in cui l’hai vista.
Pensare che per l’esistenza di posti del genere noi paghiamo di tasca nostra mi fa venire il nervoso.
La sanità è e DEVE restare assolutamente pubblica. Ma anche dignitosa per chi è ricoverato, per chi ci lavora e per chi si trova a passarci come visitatore.
Lia, forse ti dimentichi che abbiamo Formigoni for president ??
Ho passato, purtroppo, gli ultimi sei mesi ad assistere una delle persone che più amavo al mondo mentre moriva all’Istituto dei tumori. A Milano. Ho una notevole esperienza di ospedali, e mai ho visto tanta dedizione, efficienza, umanità, competenza nel personale tutto. Mai. Capisco la frustrazione, capisco ciò che ti lega a chi è stato operato, ma generalizzare non è intelligente.
Ora Moratti, prima Albertini, e prima ancora Formentini e, ancor prima, la Banda Craxotti. Che volevi succedesse a questa ex-bella città (fino al ’59/60 almeno), non cerca nemmeno più di difendersi. Ci resta solo la fuga. Auguri alla tua persona cara.
qui a Milano l’ospedale di Melzo è conosciuto come una rara schifezza, da evitare in caso di necessità: a mio padre intossicato da overdose di funghi porcini diedero un antiemetico, e via, ché era domenica di campionato. La mia esperienza, vivo a Milano, è decisamente positiva: in cima a tutti la Macedonio Melloni, dove sono nate le mie figlie e, nonostante i muri non dipinti di recente e il cibo schifoso, ho trovato bravura, umanità e gente che con abnegazione si faceva due turni per volta perché non si poteva assumere personale nuovo. Alla clinica privata, semplicemente, non si va. Perché se fanno casini poi so’ dolori, e ti portano d’emergenza in un ospedale pubblico, di quelli malandati. Forse hai visto un ospedale pessimo, e ti sei fatta una cattiva opinione. Già la cittadina non è delle più invitanti. Ma devo dire che, tutto sommato, se Milano continua a curare gente da tutta Italia, una ragione ci sarà anche: al di là dell’aspetto poco accogliente delle strutture. Di per sé Milano accogliente non è: vuoi che lo siano i suoi ospedali?
la cosa drammatica è che l’efficenza del personale (parlo per esperienza diretta, ho tuttora mio padre che entra ed esce dagli ospedali delle MARCHE) non è assolutamente ripagata. La parola d’ordine è RISPARMIARE !! Risparmiare sui ricoveri, sulle degenze, sullì’impresa di pulizie per sciorinare cifre e grafici che fanno onore (mavaff) ai vari manager e per contro, nelle corsie di reparti dove sai già come andrà a finire MA TI BATTI CON TUTTE LE TUE FORZE PER ALLONTANARE ANCHE SOLO DI UN MINUTO LA FINE DELLA STORIA, trovi infermieri che ti adoperano come se assistessero il loro più caro parente…e riescono ad essere anche psicologi con i parenti che assistono i malati, ci si dà del tu, si parla del prezzo delle mele mentre ti attaccano l’ennesima flebo e tu pensi MA CHI GLIELO FA FARE??
In compenso c’è l’Humanitas, dove ogni tanto puliscono per terra e verniciano i muri. In compenso so di persone che ci hanno lavorato e se ne sono andate quando hanno visto che la politica lì dentro era operare malati di cancro in modo da lasciare appositamente qualche pezzettino, così il paziente sarebbe tornato lì per qualche giretto ancora. Oppure fare operazioni in più anche alle parti sane.
Mio papà ha lavorato per 40 anni suonati girando ospedali di tutta italia e proprio l’ospedale di melzo era soprannominato “il canile”, (non ti dico l’ironia quando è stato ricoverato proprio lì per una polmonite). L’unica cosa positiva dei suoi interventi in quell’ospedale era che poteva tornare a casa a pranzo.
Attenta però a non confondere le cose, non stai parlando di Milano, stai semplicemente descrivendo un ospedaletto di paese in cui vige la convinzione che il medico è una specie di dio in terra a cui parlare con immenso sussiego, anzi meglio ancora non parlargli proprio e limitarsi a pendere adoranti dalle sue labbra. Così tanti boriosi come a Melzo io non li ho visti mai, poi magari sarò capitata nei reparti sbagliati, chissà.
Io abito a meno di un km di distanza e le figlie sono venute al mondo in Mangiagalli (a 20 km e tu sai cosa sono 20 km nel traffico dell’area milanese) e tutti a dirmi che “è una struttura vecchia” “è impersonale”, già perché invece a Melzo c’è struttura ipermoderna e del personale gentilissimo e competentissimo. Sìssì, come no.
I prick test per i bambini li fanno in una stanza adiacente al pronto soccorso pediatrico, tu sei fuori che aspetti e intanto ti passano accanto bambini malridotti o in barella, così, giusto per non impressionare i bimbi in attesa di cose molto più banali. Il prick test, tra un’urgenza e l’altra perché l’allergologo fa anche il pronto soccorso (!), viene fatto con un solo ago per tutte le sostanze, così facciamo pure il festival della cross contamination, l’apoteosi del multitasking.
Otorinolaringoiatra di paese che prescrive a bimbi di 1 anno e mezzo 7 giorni di bomba antibiotica intramuscolare (e che in seguito ho scoperto che ai bimbi viene dato al massimo per tre giorni) salvo inorridire quando sente parlare di profilassi antibiotica a basso dosaggio (e basso davvero) prescritta dal numero due della facoltà di pediatria di milano “Ahhh signora, tutti quegli antibiotici!!!”. Coglione.
Guarda, dammi retta, considerati contenta che tutto sia andato bene e magari il tuo conoscente vallo a trovare dopo che l’hanno dimesso così schivi il postaccio. Se invece ripassi da Melzo fatti viva che un pranzo qui non si nega a nessuno ;-)
Non dirmi niente, Lia, di questa Milano qua. Anch’io me la ricordavo diversa, dieci anni fa quando l’ho lasciata. Ci sono tornata 15 mesi fa (più di un anno, mamma mia, mi sembra impossibile) e non la riconosco. Certo, c’è ancora l’efficienza dei mezzi pubblici (insomma, sai, io a Genova dipendo dall’1, parliamone), e certo c’è ancora l’eccellenza delle università e certo è ancora la capitale del lavoro, di un certo lavoro. Ma dov’è finita la cultura? Dove sono finite le manifestazioni, i convegni, le mostre, i dibattiti? E dov’è finito il freddo rigore dell’ordine cittadino? Perché è tutto così sporco, trasandato, minaccioso?
Ma forse sono io che sono cresciuta, mi sono fatta più insicura, nervosa, fobica. Può darsi.
Meno male che è arrivata un po’ di primavera, va’.
Melzo non è Milano. L’ospedale di Melzo fa schifo, è vero, ma è consono al paesaggio che lo circonda, tutta Melzo è abbastanza brutta, te lo dice una che abita 10 Km di distanza.
Questo non significa che nello squalore delle sue stanze non si aggirino anche dei bravi professionisti
Vi leggo tutti e, sinceramente, non siete lontani dall’Argentina. Io che ci vivo a 150 km in linea d’aria mi rendo conto che certe zone dell’Italia sono uguali a quelle dell’Argentina, paese a stragrande maggioranza di cittadini di origine italiana. Una propaggine del nostro paese con vizi e difetti degli italiani di 60 anni fa.
Penso sempre alle nuove generazioni nate e cresciute in questo ambiente. Un lavoro psicologico di ambientamento e di tristezza. I ragazzi penseranno e crederanno che e’ stato sempre cosi’. Come vogliono i poteri reali e legali.
Accettazione, rassegnazione. La sanita’ assieme all’educazione dovrebbero essere le priorita’ di una societa’ giusta e solidale.
Ci salvano solo sporadici medici o insegnanti che lavorano con grande impegno sociale.
A loro la nostra riconoscenza