Premesso che trovo pessime le notizie che arrivano dal Cairo – e non perché me ne freghi qualcosa dell’ambasciata israeliana, ma perché gli errori politici di questo calibro si pagano carissimi in termini di strumentalizzazione – credo che sia il caso di contestualizzare l’accaduto.

Un buon punto di partenza è un articolo di un anno e mezzo fa intitolato “E’ giusto che Gaza paghi il prezzo della successione ereditaria in Egitto?“, in cui ‘Ala Al-Aswani denunciava il progetto egiziano di chiudere la frontiera di Gaza con un muro di acciaio sotterraneo, in modo da bloccare i tunnel attraverso cui Gaza si rifornisce di cibo e medicine e, in ultima analisi, di affamare la popolazione di Gaza “fino a quando non si sottometteranno a Israele e non accetteranno le condizioni di Israele per un accordo di pace finale in cui i palestinesi perderebbero i loro diritti per sempre.”
Progetto che arrivava dopo l’attacco israeliano a Gaza – condotto, ricordiamo, usando armi proibite dalla legislazione internazionale e che causò oltre 1500 vittime, in gran parte donne e bambini – e in concomitanza con la chiusura dell’accesso di Rafah, che voleva dire impedire a Gaza di ricevere gli aiuti internazionali.

Aswani scriveva: “Il governo egiziano sta commettendo un atroce crimine contro i palestinesi, che ci sono fratelli perché arabi e perché esseri umani. La solidarietà araba e i doveri dell’Egitto verso i musulmani e i cristiani in Palestina sono concetti che non contano più nulla per l’Egitto ufficiale che, anzi, li ridicolizza apertamente. Ma il regime egiziano, nel suo entusiasmo per compiacere Israele, non si accorge di infangare la propria reputazione davanti al mondo.

E ancora, con parole che sarebbero tornate sinistramente attuali proprio in queste settimane: “Ricordiamo che Israele, per sua stessa ammissione, ha ucciso diversi ufficiali e soldati egiziani attorno alla frontiera. Perché il nostro governo non si è mai ribellato in nome della sicurezza nazionale?

Perché lo faceva, il governo egiziano? Cosa lo spingeva ad essere così succube verso Israele, nonostante la vergogna, il profondo senso di umiliazione che questo comportamento ha sempre suscitato nella popolazione egiziana? Perché, ovviamente, assecondare i desideri israeliani voleva dire compiacere gli Stati Uniti. “In questi ultimi anni, Israele ha ottenuto dall’Egitto più di quanto non abbia ottenuto dalla firma degli accordi di Camp David […] Questo spiega la soddisfazione dell’America nei confronti del regime di Mubarak.

E, soprattutto: “Il crimine di costruire un muro che affamerà i palestinesi è legato alla questione delle riforme democratiche in Egitto, giacché il regime ha acconsentito per avere l’appoggio degli USA alla successione di Gamal Mubarak a suo padre. E’ un esempio pericoloso di quelle che sono le conseguenze della dittatura: gli interessi del regime egiziano sono diventati l’esatto contrario degli interessi del popolo egiziano. Se il regime di Mubarak fosse democratico, non oserebbe mai prendere parte all’embargo e allo strangolamento dei palestinesi. I sistemi democratici sono gli unici nei quali l’interesse dello Stato coincide con l’interesse del popolo.
Un anno dopo quest’articolo, l’Egitto scopriva che il prezzo dell’appoggio a Gamal Mubarak comprendeva anche la vendita sottocosto del proprio gas a Israele. Come se l’Egitto potesse permettersi di regalare le proprie risorse, e per un simile motivo.
E, del resto, non c’è bisogno di ricordare quanto Israele abbia visto male, fin dal primo istante, la rivolta degli egiziani per la democrazia.

Arriviamo ad oggi: il 18 agosto, meno di un mese fa, Israele ha di nuovo sconfinato uccidendo cinque militari egiziani alla frontiera di Taba. Io e Susan eravamo passate di là meno di un’ora prima, tra l’altro: è brutto vedere poliziotti sorridenti e accaldati che ti guardano il passaporto mentre tu guardi le loro magliette sudate, il loro bucato appeso allo stendino fuori dalla guardiola, e sapere poco dopo che sono piovute pallottole dagli elicotteri, attorno a quella guardiola e a quel bucato.

Era già successo in passato, comunque: la differenza, rispetto all’era di Mubarak, è che stavolta l’Egitto ha chiesto delle scuse e gli egiziani ci tenevano ad averle. Serie. Soddisfacenti. Non la consueta presa per il culo.

E siamo alla storia di queste settimane: prima è arrivato Spider Man. Letteralmente, non scherzo. Un giovane muratore, Ahmed Al-Shahat, che il 21 agosto, nel bel mezzo di una manifestazione davanti all’ambasciata israeliana, ha preso e si è scalato – di sera e a mani nude – i 21 piani dell’edificio dell’ambasciata per raggiungere la bandiera israeliana, toglierla e sostituirla con una egiziana. Così. Semplicemente. Perché gli è venuto in mente lì per lì. Davanti alla folla che lo filmava coi telefonini, incerta tra l’entusiasmo e la paura che cadesse giù.

E poi, mentre gli egiziani festeggiavano il loro nuovo eroe e la politica dibatteva su come conciliare i rapporti con Israele e il rispetto per se stessi, qualche giorno fa è sbucato IL MURO. Così, senza preavviso. Di tutte le idee che potevano venire alla giunta militare egiziana per proteggere l’ambasciata dagli scalatori pazzi, hanno scelto questa: un muro di cemento alto tre metri, eretto tutto attorno all’ambasciata. Come se non fosse il simbolo di tutto ciò di cui Israele dovrebbe rispondere, un muro. Come se non ce ne fossero già abbastanza. Proprio un muro, dovevano mettere.

E quindi la gente si è sentita provocata e sono cominciate a circolare iniziative del tipo “Buttiamolo giù”, “Porta un martello” eccetera.
E alla prima manifestazione grossa – ieri che era venerdì, quindi – la gente si è effettivamente presentata col martello e lo ha buttato giù.

Ieri sera, su Twitter, c’era (e continua ad esserci) la diretta di quello che stava succedendo.
Gli emuli di Spider Man che, in quattro, tornano a scalare l’ambasciata per mettere la bandiera palestinese accanto a quella egiziana, stavolta.

E poi il gruppo che fa irruzione all’interno dell’edificio, le carte che volano dalla finestra, la polizia che lascia fare (sarà un caso?), le tantissime persone che si dissociano dall’irruzione, la polemica che scoppia immediata, il timore delle strumentalizzazioni e, infine, la notizia che l’ambasciatore israeliano ha lasciato il Cairo “temendo per la sua vita”.

In realtà non è stata nemmeno l’ambasciata in sé, ad essere violata, ma l’appartamento accanto, che pare abbia funzioni di archivio.
Sta di fatto che, alla fine, la polizia è intervenuta (dopo avere lasciato fare, ripeto) e la cosa si è conclusa con tre morti, qualche centinaio di feriti e un bel po’ di arrestati a cui verrà fatto un processo militare. Processo militare che, per inciso, è uno degli argomenti su cui la gente protesta ormai da mesi.
Ah, e ha pure chiamato Obama, ovviamente. Per dire agli egiziani di stare attenti all’ambasciata. Peccato che non abbia ritenuto di doversi scomodare, tre settimane fa, per i soldati egiziani uccisi alla frontiera.

Concludo con qualche considerazione: che i manifestanti non dovrebbero lasciarsi provocare, intanto, muro o non muro. E lo sanno benissimo, è evidente che la Thawra (rivoluzione) mantiene la sua legittimità fintanto che è pacifica. Ed è altrettanto evidente che farle perdere la sua connotazione non violenta è nell’interesse di chi la avversa: ci provano da mesi, con baltageya ed altro, ed è un grosso peccato che stavolta sia andata così.
Mi facevano notare che il tutto è successo in concomitanza con la dichiarazione di Erdogan che ha annunciato di volersi recare a Gaza via terra, passando per l’Egitto. Non male, come mossa: ottima per scaldare gli animi egiziani, soprattutto, e per legittimarsi – assieme agli amici dei Fratelli Musulmani – alla testa di un nuovo fronte dell’orgoglio islamico.
Cosa che, sulla carta, potrebbe persino piacermi, se non fosse che ritengo che non ci si possa assolutamente fidare del fronte islamista e della sua sincerità democratica.

Gli egiziani sono un popolo spesso ingenuo, schiacciato tra interessi enormi e solo in apparenza contrastanti.
Qui si incrociano le dita, si sta dalla parte dei laici e si cerca di raccontare. Che altro vuoi fare.