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Per la ventunesima volta consecutiva l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha condannato l’embargo che da più di mezzo secolo colpisce la Rivoluzione cubana da parte degli Stati Uniti. Hanno votato contro gli Stati Uniti stessi, Israele e… Palau. Si sono astenute… le isole Marshall e la Micronesia. Hanno votato a favore della mozione cubana, affermando così che Cuba ha ragione e gli Stati Uniti torto, tutti gli altri, ovvero 188 paesi che rappresentano il 96% della popolazione mondiale.

Dove fosse Palau, ieri, se lo sono chiesto un mucchio di persone. Io ho guardato su Wikipedia, è a 500 km a est delle Filippine. Quante cose si imparano.

Qui a Cuba, intanto, incontro un mucchio di statunitensi. Uno del Missouri, l’altro giorno, mi spiegava che era arrivato dalla Florida con un viaggio organizzato: “Adesso finalmente possiamo viaggiare, ma solo in viaggi di gruppo. Venire da soli è ancora illegale, purtroppo. Anche se, sì, diversa gente lo fa passando dal Messico, ma non si potrebbe.” Tu ascolti e ti sembra di sentire parlare un ex sovietico a cui hanno finalmente abbattutto il muro, e invece è un cittadino americano a cui è proibito andare dove gli pare. E i sornioni cubani non se lo lasciano sfuggire, il paradosso, ed è carino sentirli esortare il governo USA a rispettare i diritti dei propri cittadini.

All’università, i nordamericani iscritti ai corsi di Storia postlaurea sono una ventina. Immagino che sia terapeutico, sentirsi raccontare la propria storia da un’altra angolazione. E mi pare di notare una diffusa connotazione politica, nell’arrivare fino a qui dagli USA. La sera della vittoria di Obama, sono arrivata all’Hotel Nacional in tempo per vederli festeggiare davanti allo schermo gigante, gli yankee presenti, sotto lo sguardo scettico dei cubani che, devo dire, mi sono parsi molto meno coinvolti che durante le elezioni venezuelane. Del resto, se Chavez avesse perso ci saremmo ritrovati senza luce, qui a Cuba. E, se permettete, la cosa ci tocca assai. Di Obama, il massimo che senti dire è che poteva andare ancora peggio.

La sensazione, comunque, è quella di un rapporto odio-amore, tra Cuba e gli USA, in cui ognuno è una spina nel fianco dell’altro ma ci si pensa sempre. E se i cubani fanno a meno degli USA – fanno a meno di un sacco di cose, da sessant’anni – gli USA proprio non riescono a fare a meno di Cuba e il giorno in cui non ci sarà più l’embargo la inonderanno, sono tutti lì sulla costa che fremono, altro che i balseros che si lanciano verso Miami. Una nuotata collettiva all’incontrario, ti immagini, con tutti ‘sti biondi che toccano terra sul Malecón ansiosi di ordinare un mojito, di ballare una rumba, di comprare chissà cosa, magari pure di essere voluti bene.

Per quanto riguarda me, l’Isola mi sta risvegliando la sopita donna di sinistra che mi portavo dentro. Ho scoperto che, alla fine, la cosa che più mi piace e mi interessa, qui, è la rivoluzione, come ancora la chiamano. I mille particolari che, pure in mezzo alle difficoltà che sappiamo, ti ricordano per quale motivo mezzo mondo ci ha investito sogni e speranze, in quello che succedeva a Cuba. L’attenzione ai poveri, come la definiva ieri un’amica, raccontandomi l’aneddoto del pullman a prezzo simbolico per raggiungere la Fiera affinché chiunque ci possa andare. Il povero inteso come portatore di diritti. Quanto meno, ci hanno provato.

Ieri pensavo che, più che in altri luoghi, a Cuba è fondamentale scegliere bene i luoghi e le persone che si frequentano, i mondi in cui stare. Soprattutto, stare il più possibile alla larga dal turismo è vitale. Evitare, per quanto possibile, di farsi logorare da certe dinamiche mortifere verso cui ho un’intolleranza che cresce di più ogni giorno, un fastidio profondo e invincibile.

Non credevo. Ero certa di essere tollerantissima, stralaica, per niente giudicante, e invece mi scopro qui a chiedermi cosa abbiano nella testa, i turisti del sesso, con la voglia di affogarli in un secchio uno a uno, col disgusto a fior di pelle quando li vedo, li incrocio, li sento e concludo che non si possono guardare. Non mi avevano mai infastidito tanto, in nessun altro luogo. Non in Tailandia, persino. Qui, mi suscitano qualcosa di viscerale. Deve essere la donna di sinistra che è in me, appunto. C’è della nobiltà, in quello che si è cercato di fare a Cuba, che stona troppo con la gentaglia che vedi in giro. I turisti del sesso finiscono col dimostrarti che il mondo è un postaccio, l’essere umano è ancora peggio e non c’è speranza o sogno che tenga, la Storia finisce male per definizione. Poveri vecchi panciuti, bellimbusti pasciuti, persino ragazzotti, che ti fanno venire voglia di morire, di non fare figli, di non nascere nemmeno, mentre sono lì ignari che guardano i culi che passano. Non so cosa mi stia succedendo, davvero.

Vado costruendomi la mia nicchia, quindi, in cui metto le cose che mi piacciono e butto via quelle che no. Mi piace il cinema, con le sale grandissime con gli schermi giganteschi, come in Italia quando ero piccolina, e l’entrata a prezzo simbolico, non arriva a dieci centesimi. Mi piacciono le videoteche piene di bei filmoni, dai prezzi ancora più simbolici, e sono fiera dalla mia tessera nuova fiammante. Mi piace andare a sentire il jazz sulla Rampa, il vento e l’aria di mare quando è sera, la birra Bucanero e i mojitos di troppo, certe splendide lezioni all’università, certe chiacchiere, due pettegolezzi. Faccio una vita tranquilla. E penso, penso un sacco. Ho ripreso a pensare, sono di nuovo libera di farlo. E’ come se mi fossi spolverata via di dosso un sacco di inutili calcinacci, venendo a Cuba.

“Inutile” è, alla fine, la parola chiave della mia cronica necessità di espatriare. Tutto ciò che faccio in Italia, tutto ciò che ho lì – case, mobili, oggetti, maglioni, bollette, scarpe, conversazioni, conoscenze, cibi, giorni, mesi, anni trascorsi nella certezza di stare perdendo il tempo – mi pesa per la sua inutilità. E, sempre, la mia vita trova senso solo quando se ne libera.