Proseguendo per una ventina di chilometri, dopo il Mirador de la Gobernadora, si costeggiano alcune spiagge piccine e deserte e si arriva in un villaggetto con quattro case che si chiama Tortuguilla (Tartarughina), dove c’è un tizio che affitta una stanza. La stanza in sé è parecchio malinconica ma in compenso c’è un grande terrazzo molto bello che dà sul mare, accanto a una piccola piscina vuota e a un cucinotto all’aperto. Ne faccio la mia postazione per la serata, tra lo scribacchiamento del diario di viaggio e qualche chiacchiera sul mondo e tutto quanto col padrone di casa che si chiama, sissignore, Fidel.
Verso sera, un granchio gigantesco mi passa davanti, diretto verso la spiaggia. Fidel mi spiega che è la stagione: tra aprile e maggio scendono dalla montagna e vanno a deporre le uova in mare. “Ma che ci fanno in montagna, i granchi?” “Ah, vorrei saperlo anche io”. Dice che è per questo che tiene vuota la piscina in questa stagione. Perché il primo anno non lo fece e una mattina se la trovò piena di cadaveri di granchi annegati e nera di uova. Riempì tre sacchi di carcasse. E’ che i granchi si confondono, con le piscine: si tuffano, credendo che sia il mare, e poi non riescono a uscire. “Ma si mangiano?”, chiedo io, pragmatica. Alcuni tipi sì, questi no: perché mangiano una pianta, su in montagna, che Fidel chiama manzanilla e che nello spagnolo che parlo io sarebbe la camomilla ma che a Cuba deve essere qualche altra cosa, suppongo. E questo ne rende le carni leggermente tossiche. Non muori ma ti viene il mal di pancia, mi dice. Mah. Io, comunque, mi guarderei bene dal dargli la caccia, a ‘sto bestione: sarebbe capace di portarmi via un dito come niente.
A Tortuguilla non ci sono fermate di pullman né taxi. Per proseguire, la mattina dopo, mi dovrò lanciare nella versione cubana dell’autostop, che consiste nell’appostarsi sul ciglio della strada sventolando una banconota verso i pochi veicoli di passaggio. Nel mio caso, una banconota di5 CUC. Fidel mi accompagna e mi assiste, come si fa con le straniere imbranate. Quando un camion si ferma, gli corriamo dietro in quattro: io, lui e altri due cubani che fanno a loro volta “botella”. Fidel corre con la mia valigia sulla testa. E’ un camion che porta della ferraglia a Baracoa. No, non c’è una scaletta per montare sul retro. Mi aiutano a scavalcarlo montando sulle ruote e in qualche modo rotolo dentro. Si parte. Fidel mi sussurra di riporre i 5 CUC e di darne due in moneta cubana. Sventola il cappello per salutarmi. I miei nuovi compagni di viaggio mi dicono che sono fortunata: sul retro di un camion si viaggia meglio che in bus, c’è più aria. Sono assolutamente d’accordo. Stiamo per percorrere La Farola, nota per essere la strada più panoramica di Cuba, e non potrei avere una visuale migliore.
La Farola è una strada che si cominciò a costruire nel 1951 e fu fatta completare da Fidel (quello vero, non il mio padrone di stanza) subito dopo la rivoluzione per collegare Baracoa, isolata fino ad allora, al resto di Cuba. Si arrampica su per le montagne, cosa che fa pensare ai cubani che sia molto pericolosa e che invece pare tranquillissima a chiunque abbia guidato lungo un qualsiasi Appennino, ed è effettivamente splendida. Sono dell’idea che l’interno sia la parte più bella di Cuba: le spiagge tendono a somigliarsi, nei Caraibi, e quando hai visto una distesa di sabbia chiara, due palme e tre mangrovie, poi finisce che ti pare tutto un po’ ripetitivo. Non è che le voglia criticare, ci mancherebbe, ma dal mio punto di vista non hanno il fascino di quelle del mar Rosso – penso a certi punti poco battuti del Sinai, che ti strappano il cuore, o anche all’Eritrea, e alle montagne desertiche sullo sfondo, dorate o rosso fuoco, e quel cielo a perdita d’occhio che si confonde con il mare e crea infinite sfumature di colore, e penso ai fondali, che pur nella mia limitata esperienza di snorkeling e non di sub, mi paiono nettamente superiori o comunque più immediatamente accessibili, nella loro ricchezza, di quelli caraibici. L’interno, invece, è un’altra cosa.
La campagna cubana è deliziosa, verdissima e luminosa, punteggiata di casette di legno, bambini di ogni colore, porcellini che vagano e guajiros a cavallo, e si estende a perdita d’occhio, tra palme altissime. E le montagne che attraversiamo sono lussureggianti, colme di vegetazione, di alberi di mango che traboccano di frutti, di piantagioni di banane, di piante di cacao col loro frutto rosso, di ogni ben di Dio. Le palme reali non finiscono mai, il cielo cambia a ogni istante e le nuvole sono bianchissime e, un attimo dopo, diventano scure, buttano giù appena un po’ di pioggia sottile e poi tornano bianche, non stanno ferme un secondo. Viaggiare regala dei momenti di felicità piena, assoluta, e io ne sto vivendo uno.
Quando arriviamo a Baracoa ho una perfetta abbronzatura da muratore, a maniche corte, e sono coperta di polvere di ruggine, assieme alla mia valigia. E così ci presentiamo, io e la valigia, nella casa particular più lussuosa che io abbia mai visto a Cuba, la portentosa Casa de Gustavo. E’ una casa coloniale grandissima, strategicamente situata tra il mare e la piazzetta principale, dipinta di fresco, con le stanze luminose e tutte di colore diverso – quella che dà sul mare è di azzurro acceso – e io ringrazio il cielo, pregustando la comodità e il buon cibo che mi serviranno in terrazza, e mi fermo per rimanere. Passeranno un po’ di giorni, prima che mi rimetta in cammino.
Grazie x queste splendide boccate d’aria
Che belli sono i tuoi racconti di viaggio! mi sono letta gli ultimi tutti d’un fiato, sono contenta che tu abbia ricominciato a scrivere.
Ciao!
Che piacere vedere che sei tornata alla grande dopo una relativa stasi.
Ho divorato tutto. Commovente il pezzo su Santa Clara e piu’ sopra, bene hai fatto a ricordare la storia di quella canaglia di Carriles.