Santiago mi porta sfiga, è un dato di fatto. Se all’andata ero stata azzoppata da un ragno, stavolta mi si rompe addirittura lo schermo del netbook. Non so come sia stata possibile, non ricordo assolutamente che abbia preso colpi: in tutti gli spostamenti, è sempre stato nello zainetto, infilato a forza tra la felpa e il prezioso accappatoio in microfibra. Eppure, maledizione, lo apro e guarda qua cosa scopro. Mi sento male.
In qualunque altro paese, dopo avere bestemmiato andrei al negozio più vicino e comprerei un netbook nuovo. A Cuba, dire che non è così semplice è un eufemismo. Due terzi dello schermo sono ancora in salvo, comunque: se la situazione non peggiora, posso arrangiarmi e lavorare comunque. Se il disastro si espande, invece, sono nei guai: come diamine lavoro, senza computer? Che abbattimento, santo cielo. Me ne vado a passeggio, meglio che non ci pensi.
In un vicolo sgarrupato mi imbatto nell’improbabile insegna “Trattoria Toscana”. Svetta su una casa che è ancora più sgarrupata del vicolo, e su una parete c’è scritto a mano: “Da Tonino”. Il suddetto Tonino deve essere il signore in mezzo alla strada, con una sporta della spesa in mano, che discute in italo-spagnolo con una vicina. “Lei è Tonino”, gli comunico dimostrandogli il mio infallibile acume. E’ un sessantenne ben tenuto, con dei begli occhi azzurri. Mi ricorda SMP, gli somiglia molto. Nuova acuta constatazione: “E da lei si cena”. Ma è che dovreste vedere la casa, è un miracolo che stia in piedi. Forse gliel’ho detto perché non riuscivo davvero a crederci. Mi fa strada attraverso un cucinotto buio, mentre mi spiega che “Trattoria, lei lo sa perché è italiana, indica un luogo alla buona!”, quindi mi introduce con ampio gesto in uno stanzino. Non è un modo da dire: è proprio uno stanzino, non ha finestre. Pure mal messo. Dentro ci stanno, molto stretti, tre tavolini. E questo è quanto, lì si cena. Arriva un altro cliente, pochi minuti dopo, pure lui italiano sulla sessantina, e già sembriamo una folla, tutti dentro lo stanzino sgarrupato e semibuio come carbonari del maccherone. Sui tavoli, dei terrificanti sottopiatti di plastica con dei paesaggi cubani lisi dal tempo.
“Ho le tagliatelle e le pappardelle fatte in casa, poi ho la pasta Barilla e quella Agnesi, ah, e poi rimangono degli gnocchi che ho fatto ieri. Di sughi ho fatto quello di coniglio e il ragù toscano, non so se avete presente, col manzo e il maiale. Io vi consiglio quello, mi è venuto meglio. Intanto vi porto l’antipasto: c’è il formaggio che faccio io, una specie di prosciutto che pure faccio in casa, che non è proprio prosciutto perché qui è troppo umido, ma è ‘bbono, poi bla…bla…” e va avanti a spiegare che l’olio è extravergine perché lo piglia non so dove, le acciughe pure e via enumerando leccornie. Costui è l’autarchia fatta uomo, sono impressionata. Intanto chiama: “Katiusha! Katiusha! Oh che non vieni? C’è gente!” E Katiusha arriva.
E’ un’imponente sventola nerissima di una ventina d’anni, Katiusha, con le extensions nere e bionde lunghe fino al culo e gli occhioni a mandorla, ed è con tutta evidenza la ragione, non peregrina, per cui ‘sto tizio sta qua a farsi il prosciutto in un vicolo di Cuba, col suo stanzino.
Arrivano bruschette con l’olio ‘bbono, arrivano queste sontuose tagliatelle al ragù, arriva l’assaggio di “una ricotta che ho fatto stamattina” ed è ottima. E intanto parlano, lui e l’altro cliente, e il discorso cade su un altro italiano che preoccupa molto entrambi. “Lui gli ha comprato la casa, alla tizia, e lei un’ora dopo lo ha buttato fuori. Non è arrivato nemmeno a passarci una notte, nella casa!” “Nooooo! Ma che idiota, ma come si fa? Non impara mai, non c’è rimedio!”
E mentre osservo, ascolto aneddoti e mi faccio un mare di affari altrui, penso che forse sono ingiusta nel giudicare questi miei connazionali di Cuba. Perché queste legioni di quarantenni, cinquantenni, sessantenni e oltre, che vengono qui a immolarsi sull’altare della figa, forse sono dei poeti.
Quanto deve essere importante, per loro, l’esistenza di tutte ‘ste Katiusha, per farli stare qua a crearsi queste piccole Italie in un paese dove riuscirci è tanto complicato? Non è facile, Cuba. Proprio no. Né come burocrazia, né come opportunità, né come possibilità di integrazione, né come comunicazioni, da nessun punto di vista. Questi italiani di lungo corso fanno dei sacrifici veri, non sono finiti nell’Eden. Quanto diavolo gli devono piacere, le donne, perché ne valga la pena? Quanto li rendono felici? Ma sì, so’ dei poeti, a modo loro. Che gli vuoi dire.
Gli italiani che incroci in Egitto sono un’altra razza, completamente: gente di un livello culturale e intellettuale infinitamente superiore a quelli di qui, di solito. Gente che studia, che è lì per un interesse autentico. Questi sono molto più semplici e molto più tamarri e soprattutto, nel loro affamato cinismo, in qualche modo sono dei candidi. Provo della simpatia, mentre mi coinvolgono nella loro analisi dell’amico assente e mi spiegano, preoccupati, che quello si rovina, se continua così. A me non sembrano messi benissimo neppure loro, ma annuisco e mangio le tagliatelle fatte a mano. Questo stanzino è l’esatta riproduzione del mio paese, dalle miserie alle grandezze. Questi sono i miei connazionali ridotti all’essenza. Pago il conto volendogli del bene.
Sulla via del ritorno, sono distratta. E poi ho questa mania di camminare giù dal marciapiede. Un furgoncino mi evita per un soffio. Il conducente mi rimprovera con un assai pittoresco: “¡Mamita! ¡Cuídate pa’ llega’ a mañana!”
Mañana ci ho un altro bus, devo arrivarci per forza.