E poi sono tornata a Las Tunas che, senti, ha un suo perché. E’ piccolina, rurale e tranquilla e tuttavia ha l’unico internet cafè vero che io abbia visto a Cuba, aperto fino alle 11,30 di sera e con una linea degna di questo nome mentre a Santiago, per dire, ti colleghi da due Etecsa in croce, dopo una lunga fila, e solo fino alle sette di sera. Misteri di Cuba.
E poi se magna, a Las Tunas. Benedetti italiani, la loro esistenza non è vana.
Lo so che a Cuba parlo sempre di cibo, ma che posso farci. Io sono stata in tanti posti, nella mia vita, ma le difficoltà che ho col cibo qui non le avevo mai avute. Se non, forse, quando vivevo nella provincia inglese, a 14 anni, e pure lì rimanevo a fissare il soffitto, certe notti, e a ricordare il sapore del cibo vero. A parte quel remoto ricordo, non ricordo di essermi mai aggirata affamata per l’Egitto, o per qualsiasi altro posto, vagheggiando una cucina a me affine. Che diavolo. A Cuba, invece, mi succede. A me il riso e fagioli non piace. E’ un diritto umano, che non piaccia il riso e fagioli. Io, se posso mangiare da connazionali capaci, mentre sono a Cuba, e sfuggire alla dittatura del fagiolino strabollito, sono più contenta. Tanto vale farsene una ragione.
Al ristorante dove finisco stasera, gli italiani davanti a me sono un tale sulla quarantina, tamarramente belloccio, coi capelli alle spalle e una maglietta col coniglietto di Playboy e sotto la scritta “Miami”. Sì, proprio Miami. Poi c’è un ragazzotto con più basette che lumi: le due cose sono visibili. Spero per lui che sia almeno innamorato di qualcuna, giovane com’è. E infine c’è un panzone forse lombardo, abbronzatissimo, in calzoni corti e canotta, pieno di braccialetti colorati, sulla sessantina. E’ un po’ sbronzo, molto rumoroso, ed è accompagnato da una mulatta che avrà vent’anni e che cerca di mantenerlo nei limiti delle buone maniere. Lui chiede spaghetti al pesto (“Ma che sia un piatto come si deve, non come l’altra volta che mi avete dato un assaggio!”) e, tra una forchettata e l’altra della sua montagna di pasta, schiocca grossi baci alla mulatta. Ah, l’ammore.
Rifletto sul fatto che anche i conquistadores spagnoli erano, in linea di massima, dei poveracci, eppure una loro funzione culturale l’hanno svolta, che ci piaccia o no. Questi italiani nostri non portano una lingua e una cultura ma almeno du’ maccheroni li portano. Ci accontentiamo.
La piazza principale di Las Tunas ospita, tra le altre cose, un grande cinema-teatro la cui programmazione, come sempre a Cuba, ha un suo spessore culturale. Questa settimana è stata dedicata a Humberto Solás, con film e dibattiti.
Questo è un limite curioso del libro di Millar: non menziona, mai, l’offerta culturale di questo paese, che pure è una delle cose che non possono non sorprendere chi viene dall’estero. Per quanto l’autore sia acuto e preparato, la sua Cuba è fatta di jineteros, poveri di ogni risma, l’umanità in cui più facilmente incappano i forestieri, per quanto – anzi, a maggior ragione – cerchino di entrare in contatto con la cosiddetta “vera Cuba”, ammesso che il “vero + paese a caso” esista. Ne deriva una visione dell’isola che, certo, è sincera, ma è anche lacunosa e distorta. Del resto: 1) con uno straniero di passaggio, ovunque nel mondo, è più facile che ci chiacchieri uno sfaccendato che un professore universitario o un medico, per dire; 2) certe cose – un cinema, banalmente – le cerchi se conosci bene la lingua. Altrimenti è difficile uscire dai bar; 3) l’occhio umano è fatto per vedere ciò che vuole vedere, il cervello è pigro e cerca più conferme che sorprese. Se la tua idea di Cuba è quella di un paese povero e hai poco tempo per esplorarla, parlerai con la gente delle sue difficoltà economiche e non ti verrà nemmeno in mente di guardare le programmazioni dei teatri e l’affluenza ai dibattiti culturali. Cose che però, a loro volta, sono “vera Cuba”.
E’ sabato e le molte strade pedonali della città si preparano a una serata di festa, con decorazioni, tavolini colmi di dispensatori di birra, orchestrine e cantanti e tavoli con sopra dei maiali tutti interi arrostiti, con coda pelosa e tutto. Tra un po’ si balla.
Passo davanti alla casa-museo dedicata al cittadino più illustre di Las Tunas, Vicente García, e entro. Costui era un vecchio generale mambí, che è come a Cuba chiamano i loro partigiani che, nell’Ottocento, combatterono contro la Spagna per l’indipendenza dell’isola. Come altri generali dell’epoca, era un terratenente di ottima famiglia creola, discendente da spagnoli ma ormai cubana, con i suoi allevamenti, la sua casa padronale, i suoi schiavi. E, come gli altri generali, combattè una guerra che avrebbe portato non all’indipendenza (non ancora) ma comunque alla liberazione degli schiavi e, anche, alla messa a ferro e fuoco di buona parte dell’isola, letteralmente trasformata in terra bruciata per non lasciare agli spagnoli nulla da possedere. Vicente García diede fuoco a Las Tunas partendo dalla sua stessa casa, e quella che visito ne è la ricostruzione. Dell’edificio originale rimangono qualche trave ancora mezzo bruciata e le colonne, ristrutturate. Quella generazione di mambises venne sconfitta, tuttavia, e Vicente García partì per l’esilio, destinazione Venezuela. Lì, i vendicativi spagnoli lo assassinarono riempiendogli la sua verdura preferita di schegge di vetro che gli causarono una peritonite. Ci vuole della fantasia.
La mia guida, una bella signora che racconta le cose con molta passione, mi mostra i ritratti di lui e della moglie e di altre signore molto attive nella lotta. “Certo che in tutte le vostre rivoluzioni c’è una presenza femminile importante”, commento io. E lei: “Senza dubbio! Pensi che Donna Beatriz, la moglie, venne chiusa in casa dagli spagnoli senza cibo né acqua per farle confessare dove fosse il marito, e lei vide morire di inedia i suoi due figli più piccoli ma non parlò”. So’ cocciuti, i cubani.
Mi spiega che il museo funziona soprattutto per i ragazzini delle scuole. Di turisti, qui, ne circolano pochi, e quei pochi difficilmente vanno al museo. C’è una sala dove tengono conferenze e, il terzo mercoledì di ogni mese, si riuniscono a bere la cachánchara, la bevanda a base di acquavite preferita dai mambises. Mi pare un’iniziativa lodevolissima. Ogni 26 di settembre, poi, festeggiano l’incendio della città fingendo di darle fuoco di nuovo, con falò e gente a cavallo. Dove diavolo ero, io, lo scorso 26 settembre, che mi sono persa tutto ciò?
Las Tunas mi pare, per quanto piccina e sperduta, meglio amministrata di altre città assai più blasonate. Io ci sto bene e mi metto a pensare che sarebbe bello fermarmi qui, quando sono a Cuba, se solo non fosse così lontana dall’Avana e dalle cose che devo fare per forza lì. Poi, però, arriva la notte delle elezioni europee e mi ritrovo a sentirmi sola e raminga. Perché, come dicevo, qui è pieno di italiani.
Notte di elezioni a Las Tunas
Il fuso orario fa coincidere i risultati elettorali con la locale ora di cena. Io, che li ho appena visti su internet, porto la notizia al ristorante del tizio italiano. Gli altri connazionali presenti si girano verso di me, io ripeto i risultati e vedo facce deluse ovunque. Quelli del tavolo più vicino mi fanno: “Vabbe’, sai che ti dico? Io mangio lo stesso.” “Che siete, grillini?”, chiedo io. Loro tergiversano, evitano di rispondere. Soliti vecchi con solita mulatta d’ordinanza. Davanti alle loro laide facce incazzate, mi sorprendo renziana per la prima volta in vita mia. Quello su cui mi affaccio è un baratro antropologico, molto prima che politico.
Quando si alzano per andare via, uno dei due zoppica e mi spiega: “Sono caduto dalla moto l’altro giorno.” Gli rispondo col sorriso più dolce che ho: “Alla sua età bisogna riguardarsi”.
Sarà per masochismo, sarà perché in fondo davvero mi piacerebbe commentare i risultati elettorali con qualche connazionale, faccio un giro davanti al Cadillac che è pieno di gente. Mentre ordino al bancone, arriva uno che urla al barista “Due caffè!”, come se fosse a Milano. Il barista gli dice di aspettare il suo turno, che diamine. Io, in segno di solidarietà, gli chiedo: “Ma qui come li sopportate, questi connazionali miei?” e lui: “No es fácil”.
Mi guardo attorno. Vecchi tinti di biondo, vecchi pieni di collanine, una ragazza che fa sconciamente saettare la lingua davanti all’italiano seduto con lei e lui sorride, beota. E, accanto, famiglie locali, gente normale, senza che ci sia una divisione tra i laidi e quelli che non lo sono. Siamo tutti lì, uno vicino all’altro. E io che volevo parlare di elezioni europee.
Il barista mi ripete quello che dicono tutti, che gli italiani (e solo loro: non c’è uno straccio di nessun altro straniero) vengono qui perché costa poco. “Stanno una giornata intera con un caffè”. E’ vero, noto che quasi nessuno di loro beve alcolici. Ma è un’ingenuità dei cubani pensare che sia per risparmiare, in un posto dove un añejo 7 años costa 90 centesimi di dollaro. Più semplicemente, questa è gente che deve scegliere tra l’alcool e le donne, se vuole concludere la serata, per quanto viagra abbia dietro. E’ un problema tecnico. E via col caffè, un caffè per ogni italiano presente, a mezzanotte.
No, non sono poeti: a Santiago sono caduta vittima di un miraggio. Oppure è un’altra razza rispetto agli italiani incontrati lì, questi non tirano la sfoglia nei sottoscala. Questi sono solo brutti, ma di una bruttezza che mi sanguinano gli occhi se continuo a guardarli. Che diavolo ci faccio qui.
“Posso farle una domanda?”, chiedo al barista. “Certo!” Ha una quarantina d’anni, una bella faccia da persona normale. “Lei se lo ricorda, come era qui prima che succedesse questo?” Non ho bisogno di specificare cosa. “Sì che me lo ricordo. Io ho vissuto una gioventù da re, rispetto ai ragazzi di adesso. Io uscivo la sera e con 50 pesos in tasca ero un re”. “Yo era un rey”, ripete, e guarda altrove. Io mi sento una merda, invece, e vado a casa pensando che domani vado via, ché di vecchi tinti di biondo che parlano di figa nella mia lingua non ne voglio più vedere. Dio, sii clemente, abbattici tutti con un fulmine.
Ecco, infatti non riuscivo a capire come a te questi nostri connazionali facessero tenerezza, mentre a me avevano solo fatto molto schifo. Dai pensa alle poverelle che se per far campare la famiglia se li coricano, questi viscidi connazionali che nessuna Italiana di nessuna eta’ ha mai voluto toccare… Poi vabbe, quello che va li a vivere, quasi lo rispetto, ma quelli che vanno li un mese… mamma mia!! (Ho visto una scena a Holguin che se ci ripenso mi fa ancora venire i brividi)
Comunque non c’e’ solo riso con i fagioli, se vai da Chachi a Playa Larga (ci sono due Chachi, se vuoi ti mando piu’ dettagli) l’aragosta te la tira dietro per nulla!! Buona Cuba!!
Uhm, l´aragosta. Per una buona che ne trovi – ma é cmq congelata – ce ne sono venti che sanno di pura gomma. Uhm.
….questa è gente che deve scegliere tra l’alcool e le donne, se vuole concludere la serata…
Esatto !
Per i “Casanova” italioti, non sarei cosi’ sprezzante, in fondo si tratta di uomini (ma anche donne) che per un breve periodo hanno l’illusione di sentirsi giovani e sexy e magari un po’ di autostima ti ritorna e ti aiuta a vivere meglio nelle nebbie padane..
Da quando ho saputo che un’aragosta di media grandezza puo’ avere anche 50 anni, non so perche’ , ma le ho eliminate.