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L’ho già scritto un centinaio di volte, ma periodicamente è bene ripetersi.

Io, nel mondo arabo, ci sono capitata per sbaglio.
Ero andata in Israele, l’unico paese dell’area che, a quei tempi, mi interessava. Gli arabi mi facevano paura e, viaggiatrice donna e sola, non avevo nessuna intenzione di entrarci in contatto. Pensa com’è la vita.

Ero lì tutta contenta che mi godevo il paese, quando mi capitò di andare a visitare i Territori palestinesi.
L’orrore di quello che vidi mi mise fisicamente in ginocchio: passai giorni a letto con la peggiore gastrite della mia vita (e un vecchietto palestinese determinato a curarmela a base di caffè turco) e pensando che, fino ad allora, io non avevo avuto nemmeno la più pallida idea di cosa succedesse laggiù. Magari qualcuno me l’aveva pure detto ma io, semplicemente, non l’avevo capito.
Ho dovuto vederlo, per capirlo.

Poi passai la frontiera e mi presentai in Egitto.
Lì scoprii che la mia ignoranza non si limitava alla percezione della questione palestinese: non avevo mai saputo nulla degli arabi in generale. Di quelli in guerra e di quelli in pace, delle persone normali, delle donne, di tutti.
C’era un mondo intero con cui io condividevo buona parte delle mie radici, ed io non ne sapevo nulla. Peggio: ero piena di pregiudizi, di false convizioni, di spazzatura propagandistica assorbita fin dalla culla.

Mi sono incuriosita, quindi, poi innamorata e infine trasferita.
Tutto qui.

Io credo che la me stessa di allora fosse un campione rappresentativo dell’occidentale media.
Se ci penso, mi pare evidente che la vera “vigilanza” che bisognerebbe mettere in pratica di questi tempi non è quella contro l’antisemitismo, ma quella contro l’islamofobia. Per motivi evidenti che qualsiasi persona intelligente non ha bisogno di sentirsi ripetere.
Quando ero piccola, ed imparavo cos’era stato l’antisemitismo, mi era chiarissimo che l’obiettivo della mia formazione non si limitava a scongiurare il rischio che certe cose tornassero a succedere agli ebrei: era una formazione che si allargava a tutti gli esseri umani, a prescindere dalla loro etnia, cultura e religione.
Su questo concetto, tanto elementare, si è sviluppata una specie di amnesia collettiva.
Invece di imparare a riconoscere i mostri che coviamo dentro quando ci rapportiamo al “diverso”, abbiamo preso una bella scorciatoia: chi è “buono” indossa guanti di velluto ogni volta che deve pronunciare la parola “ebreo” e chi non lo fa è “cattivo”.
Roba da matti.
Come diceva Said, gli arabi sono l’unico popolo al mondo verso cui si possa essere razzisti sentendosi orgogliosamente democratici.
E, mentre sui palestinesi piovono bombe da decenni, viene loro richiesto di misurare sentimenti e parole nel dire cosa ne pensano di coloro che gliele mandano.

Bene: proprio perchè sono nata e cresciuta nel rifiuto dell’antisemitismo, mi è chiarissimo chi sono le vittime, in questo momento, e chi sono i deboli.
Non mi preoccupo dei toni usati dalle vittime.
Mi preoccupano molto di più gli atti dei loro aggressori.

(La vignetta qui sopra fa parte di una serie famosa che è qui.)