Non riesco a vedere Lavorare con lentezza ma, grazie a Lu e ad Emule, ho visto Buongiorno, notte.
In fondo, ‘Lavorare con lentezza’ non ho bisogno di vederlo: me lo ricordo, è la mia generazione.
Pensavo a questo, invece:
“Se non altro, con il ’77 finisce l’idea leninista seconde la quale il potere si sconfigge solo prendendo il Palazzo d’Inverno, quindi sostituendosi ad esso. Gli ultimi a pensarla così sono i terroristi. Infatti tutto finisce con il delitto Moro del ’78. Ma il movimento del ’77 vuole essere libero, mentre i terroristi non capiscono che la scelta della clandestinità ti rende schiavo.”
Che poi è la frase che ho letto da Lu e che ha tenuto il mio pc acceso su Emule per qualche giorno.
Nel ’77 avevo 15 anni e vivevo in Inghilterra, paese dove più di una famiglia europea era solita spedire i propri giovinetti in odor di sovversione giacchè i conventi, a fine anni ’70, sembravano esagerati persino al più severo dei padri.
Terra di esuli, la provincia inglese del ’77: il Libano mandava belle cristianine fuori dalla guerra, e quella a cui penso io si innamorò, ricambiata, del nostro prof. Era nata nel casino per sbaglio e, nel suo immutabile chic, trovò il suo salotto d’oltremare e fummo felici per lei.
L’Iran mandava pestifere ragazzine dalla bellezza insolita e un po’ baffuta, e Victoria in minigonna che ballava come nessuna è, per me, l’emblema stesso di un mondo ricco che si raccoglie attorno al suo Scià senza annusare il cataclisma in arrivo. Ho passato anni ad immaginarmela con il chador, dopo, o – più probabilmente – esule di nuovo, e stavolta sul serio.
O giovanotti in odor di sovversione, pure loro, e però poi hanno fatto sul serio, mica come noi. E il futuro giovin rivoluzionario che, siccome una sera l’avevo baciato, credeva che ne fossi innamorata e vagli a spiegare che c’era un malinteso culturale e che mica è necessario amarti, per baciarti.
Le armene, che facevano gruppo a sé e non ci facevi amicizia e di loro ricordo solo l’espressione dura che mi spaventava un po’.
Le kuwaitiane, quanto le odiavo!
La qui presente filo-islamica passava il tempo a fare dispetti, ricambiata, alle fanatiche soldatine del più bigotto tra gli Islam che non erano in Inghiterra perchè sovversive da raddrizzare ma, col gene dell’integrazione in perfetta salute, avevano solo da studiare e poi tornare a casa col diploma Made in England.
Io: “Tu, all’alba, in camera mia non preghi! Vattene in bagno!”
Lei: “In bagno non si può pregare! Ti fotti, lasciami in pace e mettiti i tappi nelle orecchie, figlia di divorziati!”
Io: “Padrona di casa, hai sentito??? Mi ha chiamato ‘figlia di divorziati’! Cacciala!!”
Lei: “Padrona di casa, non azzardarti a cacciare me e caccia lei, piuttosto! Ed io sono una principessa, tra l’altro!”
Quelle del Kuwait erano tutte principesse, peggio che a Napoli.
E poi ci fu quella che passò l’intero anno abbracciata alla stufa e non uscì mai perchè faceva troppo freddo, e ricordo che dicevamo che non si lavava nemmeno i denti.
E poi una scena che mi emozionò, e fu quando la nostra scuola proiettò ‘Jesus Christ Superstar’ e loro, tutte insieme, si alzarono e se ne andarono.
Non si erano messe d’accordo, fu spontaneo. Ed io, guardando le loro facce dure, la testa alta con cui si avviavano all’uscita, sentii la fitta che sento sempre, quando mi accorgo che non ho una fede e un mondo con cui prendere la porta all’unisono.
Avevo una radio, però, e me la portavo a letto e, di notte, sentivo la Rai che raccontava ciò che succedeva a Bologna, e pensavo che il mio posto era là.
Il mio prendere la porta all’unisono.
Quando rapirono Moro ero ormai a Napoli, avevo 16 anni e il mio mondo girava attorno a Piazza Sannazzaro.
C’erano i grandi (quelli che avevano già 20 anni e, Marco, parlo di Susanna e i suoi amici) che raccontavano di essere andati in pasticceria a chiedere “una Testa di Moro, grazie”, e ridevano, ed io un po’ li ammiravo e un po’ mi sembravano sciocchi, come sempre mi è sembrata sciocca la gente che ride del dolore altrui.
E quando ammazzarono Moro io non tornavo a casa perchè ero barricata nella camera da letto del mio fidanzatino che era il Grande Amore Contro la Famiglia e, per una volta, mia madre mi telefonò per dirmi di non muovermi di là, ché avevano ucciso Moro e non si sapeva cosa poteva succedere, forse i carroarmati in strada.
I carroarmati in strada arrivarono, ma tre anni dopo e in un altro paese. Valencia, e alle Canarie si disperarono perchè il Golpe poteva portare alla cancellazione del Carnevale ed io capii lì, per la prima volta, cosa vuol dire crescere sotto una dittatura: che si diventa stupidi. Che si pensa solo ai fatti propri, alle cose poco importanti. Che si perde prospettiva storica, e tutto si riduce ai fatticelli tuoi.
Che saper pensare solo ai fatticelli tuoi e al tuo divertirti è un vanto, anzi. Vuol dire che sei integrato, che hai capito i tuoi limiti, la tua sfera d’azione. Hai trovato il tuo ‘prendere la porta all’unisono’, ed è quella che ti porta a ballare.
E non hai memoria, quando cresci in una dittatura: il mondo comincia e finisce con te, non c’è altro da ricordare.
Ero fiera del mio passaporto italiano, nel 1981.
Il sequestro Moro, sciocco e assurdo e tanto vicino, tanto fatto da quei pirla dei fratelli maggiori che chiedevano le Teste di Moro al bar perchè non capivano cosa voleva dire soffrire, era stato un corso accelerato di Educazione Civica tenuto dal padre spirituale della mia generazione che odiava i padri: il PCI, pensa te.
Che durezza, santo cielo. Che botte terapeutiche.
Allora: sapete cos’è la democrazia? E’ una cosa tenuta in piedi da quattro principii in croce su cui non si può, non si deve transigere. Altrimenti crolla tutto. Ci dispiace tanto. Schiena dritta e pedalare.
Non lo so, se ero d’accordo. Però so che nel 1981 era grazie a questo che mi sentivo parte di una democrazia forte e non mi fidavo del fuscellino spagnolo e, anni dopo, non volli prendere la loro nazionalità. Che scema. Mi servirebbe, oggi. Mi darebbe da mangiare molto più della mia sciocca italianità.
Però, allora, io sapevo che la democrazia non era il voto della maggioranza ma qualcosa di più complesso che risiedeva, innanzitutto, in qualche principio. Forse c’erano un sacco di balle, oltre quei principii, ma io sapevo che, finchè reggevano loro, io ero protetta.
Erano la mia eredità di cittadina. Possedevo qualcosa, ed era una cultura che mi era stata tramandata o, forse, semplicemente regalata.
Ma dai miei vecchi, dai miei padri. Mi apparteneva, ero parte del gruppo.
Apprendevo, in Spagna, dei “cristianos viejos”. Io ero una “europea vieja”.
Venti anni dopo, quei principii se ne andarono a farsi fottere.
Ero in macchina, sulla Milano-Genova, e andavo verso Famagosta quando si parlò dell’università di mia figlia e sentii che il mio tempo era passato e che il mio paese non aveva nulla da dare all’ex bambina che avevo portato lì con tanto entusiasmo, con tante certezze.
Era tanto vecchia che si era bollita, la mia piccola Europa, e la Spagna che avevo snobbato venti anni prima era adulta e forte, ormai, e noi eravamo dei vecchi rimbecilliti.
Non volevo vederla crescere in un Paese senza informazione, senza alternative, senza respiro. E con tante parole d’ordine, con tante certezze indotte, con tanta spazzatura a pranzo e cena. Era un’angoscia, l’Italia berlusconiana tronfia e ignorante, fiera di essere cialtrona.
Asfittica e cieca, come i paesi che mi ero permessa di guardare dall’alto in basso da ragazza. Begli scherzi ti fa la vita.
Cosa ci fa una ventenne, in un posto così?
“Ok. Vattene in Spagna. Credo sia più sano.”
Tra un po’ saranno due anni e non vuole tornare, lei.
Nemmeno io.
Ha talmente poca identità, il mio paese, da non saper trasmettere nemmeno nostalgia.
Io non la vedo da un anno, l’Italia, e ieri volevo sentirne la mancanza.
Ho pensato a Capri e all’odore di pioggia.
All’autunno e ai pini.
A Milano di quando la conobbi, con i suoi fornai nella nebbia. Mi sono fermata su Milano, con il pensiero, e l’odore dei forni si è trasformato, nella mia memoria, ed è diventato un tripudio di pizze senza glutine, di pane alla zucca, di grissini ai cinque cereali, di inutili sfilatini con l’uvetta, di costose, volgari cazzate.
Non sentivo più l’odore del pane, nemmeno con la memoria.
E non ho provato nostalgia: è come se fossero tutti morti.
Siete tutti morti, o forse lo sono io.
Il pane con l’uvetta, ma andate affanculo.
La civiltà occidentale dei soldi da buttare.
Un vuoto assoluto.
Appartengo a una generazione che è stata tanto intensa quanto inutile.
Ce lo proponemmo, del resto: mai avuto orizzonti, oltre noi stessi. Forse credevamo che i padri fossero immortali.
I fratelli maggiori, quelli di cui parla Bellocchio, non erano diversi da noi, checché se ne dica: trovarono un altro modo di incanalare la propria inquietudine e basta.
A 16 anni, avevo un maglione esattamente uguale a quello della protagonista del film. Bravo, il costumista: quel maglione è un’alternativa al passaporto, quanto a riconoscimento della propria identità.
Rimane il fatto che ci si riconosce per i maglioni e, oltre quelli, non so cosa ci sia.
Il Libano, l’Iran, il Kuwait, la Spagna, o l’Argentina o il Cile che, per me bambina, erano l’equivalente dell’Uomo Nero: tutti hanno una storia, un tentativo di essere felici, una sofferenza pagata come prezzo. Tutti loro lo sanno, che essere felici non è un diritto. E che la Storia non si svolge in TV ma ti arriva in casa e ti fa un casino che ci vogliono anni, poi, per rimettere ordine.
E noi?
Noi non ci ricordiamo più, e stiamo tutti a starnazzare sul terrorismo e ci siamo scordati che erano i nostri figli, i terroristi, o i nostri fratelli, i nostri amici, i nostri compagni di scuola.
E guardo il film di Bellocchio, mentre sono in Egitto, e mi chiedo: “Ma di cosa si lamentavano? Che gli mancava? Guarda che bella casa, guarda la pentola sul fuoco. Guarda il bel maglione, uguale a quello che avevo io, e i tre quotidiani (“Mi dia il Corriere, l’Unità e Lotta Continua”) comprati tutti i giorni.
E in Egitto hanno ridotto la tessera del pane, e dovreste vedere la gente come si arrampica, sulle cancellate delle panetterie dei poveri, per prendere ciò che le tocca ora che non c’è grano.
Castelli umani appesi alle inferriate, e questo è il mio panorama.
E la loro rassegnazione.
O il “terrorismo”, e il mondo in guerra contro di loro.
Ma pensa te, com’è la vita.
Se mi chiedono di dove sono, io rispondo che sono italiana. Che vuoi che risponda.
Però non lo so, io, cosa voglia dire con esattezza, essere italiani.
Ora che ci si affanna a difendere la nostra identità, non è che qualcuno me lo spiegherebbe?
Che cos’è un italiano, santo cielo, oltre che il figlio di mille, intensissime, futilità da dimenticare?
Vorrei una porta da “prendere all’unisono” con voi e mi sembra di stare tra le porte girevoli di un bell’albergo. Mi viene da ridere e potrei girare per sempre, come un carillon.
E’ mangiare la pasta, essere italiani? E’ essere leggeri, essere superficiali, emozionarsi senza emozione?
Suona un po’ fascista, chiedersi cos’è un italiano.
Anche in questo, sono svantaggiata: altri paesi se la sono fatta in tempi non sospetti, questa domanda.
Ma sai: io lo dovrei insegnare, ormai, cos’è un italiano.
E mi sembra di essere una dei mille napoletani fermi al parcheggio di un autogrill: vendo una scatola vuota, appesantita dai mattoni affinchè non si scopra che, dentro, non c’è nulla.
leggo, sempre ammirato, sempre senza parole.
Parlare e pensare in una lingua madre comune non ? una futilit?. Vivere e convivere nello stesso posto, con le stesse tempeste e gli stessi solleoni milioni di vite umane non ? futilit?. Scambiare affetti, conoscenze, e lettere e fluidi corporali e tutto quanto con facce che un poco ci assomigliano non ? futile. E infine, millenni di storia comune: per una persona ? la memoria stessa a costituire identit?, cos? lo ? per i popoli.
non so perch?, io non c’ero nemmeno, sono del 1981, ma questo post mi ha turbato, ho quasi le lacrime agli occhi
Potrei raccontarti la mia vita, da italiano, da capoverdiano, da austriaco…sarebbe inutile.
Ho trovato molto inutile pensare “essere italiano” come trovo molto inutile cercare di esserlo. Non e’ possibile ne per mia capacita’, ne per volonta’ altrui.
Ora vivo in Sardegna, e qui gli italiani lo sono a fatica, sono Sardi…
L’unica cosa che mi viene da pensare e’ che faccio parte di questo pianeta, unica soddisfazione, l’unico pensiero che non delude la mia identita’. Il resto diventa una serie di catene che mi imprigionano.
Furious Angel
Io dico se si devono scrivere certe cose:
“Appartengo a una generazione che ? stata tanto intensa quanto inutile.”
E anche altre che non sto qui a copiare.
La smetti di aver sempre ragione?
Ohim? Lia, totale adesione e condivisione.
:((
Sorellina in preda alla botta d’acc?pia:
nel ’77 avevo 19 anni e un figlio appena nato
-sicch? a Bologna neppure io ci andai.
Non ho troppa nostalgia per quegli anni (troppo b/n, troppo manichei) se non per il senso d’appartenenza: che’ fare il solista ? grazioso, pero tambien aportar tu granito de arena al conjunto mola mucho.
La ricerca della “dimensione collettiva”, peraltro, ? stato ed ? il nostro marchio distintivo: dal “piccolo gruppo” al forum seppur virtuale, dai compagni del liceo al circolino via web, dai libri sottolineati e prestati (e ohime’ mai pi? rivisti) al gruppo di lettura online. Alla creazione dei sindacati. Oh, noi ci abbiamo provato.
Che’ la coppia non basta, ci serviva e ci serve una dimensione pi? ampia: compartir, compartir: compartir es vivir.
Non li invidio i nostri figli. Cresciuti in tempi di AIDS, non scriveranno mai un post sullo Zimba e su quanto pu? esser divertente. Divenuti adulti in tempo di ?uro, non potranno viaggiare, amare, sperimentare come lo abbiamo fatto noi. E il loro “sentirsi parte di” ? qualcosa di vago, indistinto, nomadico, effimero: mai legato a un progetto, al comune sentire di una generazione.
Se a te, se a noi manca, ? perch? l’abbiamo vissuto. E scusa se ? poco.
Abrazo de oso, hermanita.
Bella, Equi.
‘Azie. :)
Fare il solista non ? grazioso….ma ? contare su s? stessi e prendersi le responsabilit? intere senza alleggerire di niente.
E prendersi tutto il merito…quando c’?.
Abbiamo punti di vista differenti e rimpianti uguali.
Non sparare a zero sui giovani…..
Perch? non vedo mai i miei messaggi pubblicati?lia….vorrei comunicare con te,come devo fare?
Commossa. Ovviamente…
Laura: non pubblico mai i tuoi messaggi perch? mi fai domande sul trasferirsi al Cairo sotto post che non c’entrano niente. Me l’hai chiesto persino sotto un post che parlava della morte di Arafat.
Io, a questa domanda, ho risposto qua:
http://www.ilcircolo.net/lia/000611.php
Okay, mi hai convinto. Me lo guarder? pure io quel film…
Il senso di appartenenza e l’identit? sono argomenti a cui approcciarsi non ? facile. Aprono mille interrogativi e le prospettive che se ne deducono sono alquanto deprimenti, ma a volte la penso come chiara: c’? del fermento in giro. Magari non basta, non ancora. Ma c’?. E forse saremo pure noi una generazione intensa (intensa, noi? ma dove?!) e inutile. Oppure piatta e inutile. O altro. Si spera.
Cara Lia ti leggo oggi e vedo che stai continuando la discesa di ieri.
Ti rispondo solo per ci? che mi riguarda. Nel 78 avevo 5 anni, non esistevo, mi ricordo solo che la mamma mi venne a prendere all?asilo perch? era successo una cosa gravissima, aveva le lacrime agli occhi e mi teneva in collo, mentre gli altri giorni voleva sempre che camminassi da sola. Aveva 28 anni e due figlie.
Sono cresciuta nella bambagia e diventata ottimista per forza di cose: famiglia unita, discussioni che si chiudevano con lacrime e abbracci, nonni, zii, cugini, natali insieme. E poi il babbo che a 30 anni ? ancora disposto a prendermi in collo mentre legge il giornale e la nipote gli barcolla davanti sul tappeto. Sono vissuta nella bambagia, lo so.
Ma quando ? stato il momento ho saputo aprire gli occhi e una volta aperti non li ho richiusi. Quando i miei se ne sono accorti ho visto che non tentavano di fermarmi, non mi avevano mentito, avevano solo tentato di propormi un altro modello perch? sapessi che ce n?erano altri. E cos? riesco ancora ad essere ottimista, credo che si possa fare qualcosa, che dentro le persone ci sia la volont? di trasformare e trasformarsi.
Non mancano le iniziative, mancano i leaders. Io li sto aspettando, so che verranno perch? il coltivo ? quasi pronto. Te ne sei accorta del fermento che c?? a giro? Lo senti dall?Egitto o forse sei un po? troppo lontana? Non ? un?accusa, sai, anch?io se vedessi la gente che si arrampica sui cancelli per la razione di pane, del fermento nell?italietta non sentirei neanche una scosserella e comunque non mi basterebbe.
Per? io che sono qui lo sento e mi guardo in giro per vedere da dove viene e che strade prende; nel mio ridicolo intorno alzo la voce, richiamo ?alle armi?, quelle buone che non fanno male a nessuno. E quando vedo che i giovani ci provano li considero dei valorosi perch? non ? facile preoccuparsi quando guardando per strada c?? un tranquillo traffico di gente e macchine, le vetrine sono illuminate, i pub aperti fino a tardi e gli amici li raggiungi dovunque siano con il telefonino.
Ho vissuto in Spagna, l?adoro la Spagna, ma non mi sono sembrati tanto diversi da me i giovani spagnoli. La Spagna non ha Berlusconi e questo ? un grosso merito, ma due anni fa quando il Prestige ha devastato le coste della Galicia si sono lasciati corrompere come i nostri e se l?attentato non fosse arrivato l?11 Marzo non so come sarebbero andate le elezioni, ma lo sospetto.
Con questo non faccio un discorso campanilistico, sinceramente sono italiana ma non lo trovo un gran vanto, in qualche occasione sono felice di essere europea, in altre meno. Pi? che altro sono contenta degli amici che mi scelgo, delle persone che frequento, di quelle con cui discuto. Non mi interessa molto il passaporto se non per tentare qualche generica classificazione, giusto per far andare il pensiero un po? pi? rapido.
E adesso scusa: hai una figlia di cui non potresti essere pi? orgogliosa e l?hai cresciuta te, ribelle, illusa, napoletana, milanese, fuggitiva, criticona, filo islamica e tutto il resto. Non ? gi? una bella contro parte?
Io son troppo giovane forse per non amare l’Italia. Tra i paesi che ho visto, non ho dubbi e rimango.
L’Italia non ? una scatola vuota per me, semmai una scatola che negli ultimi 80 anni ? stata sballottata un p? troppo. Come un vaso di diversi liquidi: sballotta che sballotta, a galla viene quello con il peso specifico minore.
Ma poi sotto c’? anche il resto
bella scrivi:
Il Libano, l’Iran, il Kuwait, la Spagna, o l’Argentina o il Cile che, per me bambina, erano l’equivalente dell’Uomo Nero: tutti hanno una storia, un tentativo di essere felici, una sofferenza pagata come prezzo. Tutti loro lo sanno, che essere felici non ? un diritto. E che la Storia non si svolge in TV ma ti arriva in casa e ti fa un casino che ci vogliono anni, poi, per rimettere ordine.
ecco hai toccato il nocciolo…
la memoria umana ? corta. da voi il cataclisma succese con la seconda guerra mondiale e la memoria fisica umana ? corta. e la gente si convince che la felicita’ ? un diritto.
baci
In molte cose mi ci specchio… La “bella generazione delle dissipate speranze”.
Grazie Lia, mi vengono i … Lacrimoni!!
ciao Lia
come al solito regali emozioni soprattutto a chi, come me, nel 78 aveva gi? 22 anni, che ha vissuto sempre in italia (e sono fortunato per essere nato in toscana) e che sempre meno si sente italiano, che non si emoziona neppure quando gioca la nazionale di calcio, che non tifa Ferrari, che non ama la TV, che non sopporta i qualunquismi tipici italici, che rispetta le file, che vorrebbe vedere qualcosa di diverso all’orizzonte (e non parlo del “sol dell’avvenir” ) io non sono pessimista, direi realista (che forse ? peggio) penso fermamente che l’italia si merita berlusconi, bossi, fini e buttiglione, perch? l’italia ? quella (o quasi) fatta di furbetti, approfittatori, egoisti, ipocriti, moralisti, sessuofobi e chi pi? ne ha pi? ne metta…..
no cara Lia anch’io come te non mi sento italiano… italiano nel falso benessere, nel comprare per essere, nel “non mangio perch? non ho soldi, ma ho l’ultimo modello di telefonino che fa le foto, naviga in internet, manda e-mail e tutto quanto fa spettacolo ” (sgranocchiatelo quando avrai fame cretino/a)
deluso , depresso , senza riferimenti, posso solo ringraziarti per non farmi sentire “solo”
ti abbraccio
Ora capisco molte cose. L’impepata di cozze diPiazza Sannazaro, con contorno di taralli radioattivi, ha contribuito a far di te una Donna Bionica.
Pi? che altro me li noto ancora sulla stomaco, impepata e taralli.
E birra L?wenbr?u.
Se il maglione che scorgo ? quello che penso io, certo, anch’io lo possedevo.
D’altra parte come fare a meno delle divise ai nostri tempi?
Almeno i giovani d’oggi hanno pi? ampi margini con cui travestire le loro identit?.
Eppure io sentivo qualcosa quando correvo fuori da scuola dopo che avevano ammazzato Moro, io ero convinta di appartenere a qualcosa che non capivo nemmeno io a quel tempo tanto bene (forse non lo capisco nemmeno oggi, senza forse)
Io che amo visceralmente la mia terra, che quando alzo gli occhi e vedo una qualunque statua di una qualunque chiesa, ecco, mi commuovo, non posso trattenermi dal pensare alla mia storia, che cammina ogni giorno sotto i piedi ed intorno a me.
Questo senso di appartenenza si ? fatto un po’ pi? confuso negli anni e nelle decine di spostamenti in tante parti italiane, ma sotto, in fondo, c’? e non lo rinnego.
Lasciamo perdere il 77 e tutti quegli anni l?, che preferisco rimuovere.:)
Che poi a pensarci bene i discorsi dell’italiano e falso benessere e dell’egoismo e tutte quelle cose l? per me non sono da circoscrivere alla semplice italianit?.
Ma la finisco qui, altrimenti impesto i commenti.
:)