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Siccome da quando sono tornata in Italia non faccio altro che incappare in biciclette, a cominciare dalla mia, succede che ieri ho conosciuto un signore tedesco che si chiama Heinz Stücke e che, avendo pedalato per 45 anni percorrendo 460.000 km e visitando 192 paesi, è il recordman mondiale del giro del mondo in bici.

E’ andata che io avevo appena parcheggiato la bicicletta con cui ero arrivata in centro a Bolzano (maledicendo il sellino da uomo che ti fa scoprire aspetti dell’anatomia maschile su cui non avevi mai riflettuto, mentre sei lì che pedali poggiando prima un lato del culo, poi un altro, poi sollevandoti, poi bestemmiando e, comunque, sognando cuscini) quando, dalle parti della cattedrale, sono incappata nella fotografia di uno che pedalava nel deserto.

Il deserto è stato la prima cosa che ho visto, a dimostrazione del fatto che l’occhio umano è fatto per vedere innanzitutto ciò che vuole vedere.
Poi ho visto che attorno a quella foto ce ne erano almeno altre 20 e che tutte erano attaccate a una grossa bici nera piena zeppa di nomi di città e paesi scritti in bianco e io, ovviamente, ho subito visto “Egypt”.
E, infine, ho visto il proprietario di tutto ciò che mi aveva già salutato tre volte, poverino, mentre io ero lì che scrutavo la sua roba, e gli ho detto: “Ciao. Che deserto è questo?” e, così, ci siamo messi a chiacchierare.

E’ in giro dal 1960, lui. Da prima che io nascessi.
Per attraversare l’America del Sud ci ha messo quattro anni, per girare la Cina ce ne ha messi quasi due. In Alaska gli è caduta in acqua, la bici, e lui l’ha recuperata un attimo prima che l’acqua si ghiacciasse. In Zambia gli hanno sparato, in Iran gli hanno dato un passaggio in macchina e ha fatto un terribile frontale. A me è sembrato in ottima forma: averceli, 65 anni così.
E’ uno che si accalora molto nei discorsi ma deve anche essere abituato a stare zitto per giorni e giorni, mentre pedala: parlavamo di Maometto e lui insisteva sul fatto che andava matto per le donne, il Profeta, e io gli dicevo che questa mi pareva una grande virtù ma lui niente, si ostinava a considerarlo un difetto che aveva portato alla legalizzazione della poligamia e io mi chiedevo perché ce l’avesse tanto con la poligamia, essendo un uomo, ma vabbe’.

Poi mi ha chiesto del mio Egitto e se ero egiziana e se mi prendevano per egiziana, lì al Cairo, e se questo mi aveva semplificato la vita, ché ad essere biondi da quelle parti le cose ti si complicano parecchio, secondo lui. A me, questa, è sempre sembrata una fissa molto tedesca, ma d’altro canto non sono mai stata bionda e non ho elementi per giudicarla.
E abbiamo parlato degli stipendi degli insegnanti in Medio Oriente e lui, santo cielo, sapeva tutto.
E abbiamo analizzato il mio problema (“Sono qui al solo scopo di ripartire, devo aspettare circa tre anni e non so se ce la farò”) e il suo (“Sta per scadermi il passaporto e la burocrazia tedesca pretende una residenza, per rinnovartelo, e io la residenza non ce l’ho e devo convincerli che quello che faccio è positivo per l’immagine della Germania, che complicazione!”) e, infine, gli ho comprato il suo libretto di resoconti e foto sponsorizzato dall’Agfa e lui non voleva farmelo pagare, ché forse mi aveva inserito nella categoria “compagni di pellegrinaggio” e ha insistito molto per sapere se ero sicura di averceli, i tre euro, e io mi sono molto divertita e gliel’ho pagato con la forza, ovviamente, e poi me lo sono andato a leggere in una stube davanti a un bicchiere di Lagrein Dunkel, non prima di essermi beccata una lezione di tedesco dall’oste che mi ha spiegato che non si dice “Lagrén” ma “Lagrain” e poi mi ha chiesto di dove ero, e la domanda mi pone sempre delle incertezze, ahimé, ché ovviamente rispondo che sono di Napoli e poi mi chiedono se sono lì in vacanza e a me pare di mantenere una conversazione piena di balle ma, d’altronde, non è che una possa spiegare i propri casi ogni volta che le chiedono di dove è.

La cordialità dei bolzanini mi stupisce sempre.
Per una che arriva da Milano, questo fatto di uscire di casa e ritrovarsi a chiacchierare con un mucchio di sconosciuti è decisamente sorprendente.
Una, poi, fraintende: a Natale scorso mi ritrovai pedinata da un signore, sotto i portici del centro, ed era pure sera e mi spaventai molto e, stringendo fortissimo la borsa, mi rifugiai nella prima stube che vidi.
E il pedinatore, dentro con me: “Posso offrirle qualcosa?”
E io: “Ah, dunque non desidera scipparmi?”
E lui: “No, io veramente sono un rappresentante di abbigliamento per signora, ho appena finito di lavorare e mi è sorto il desiderio di bere qualcosa con lei.”
Sono cose che, a Milano, generalmente non ti succedono.

Tornando al ciclista giramondo: pensavo a come era stata facile la conversazione con lui, a proposito di stipendi mediorientali e cose così, e pensavo alla fissa per la bici che mi è venuta da quando sono tornata in Italia.
Fissa da neofita patata, ovviamente, ché la mia è una Legnano da passeggio col cestello e io non ho mai fatto un minuto di sport in tutta la mia vita e, anzi, ho sempre avuto un rapporto come minimo dispettoso, col mio corpo, ché a lui non va mai bene nulla di tutto quello che faccio ed è il carceriere a cui devo rendere conto per il mio spirito gaudente e la mia sostanziale sregolatezza e suppongo che prima o poi mi passerà una fattura salatissima, lo stronzo, ma d’altronde è fatto apposta e, comunque, è una fattura che prima o poi ricevono tutti e pazienza.

E quindi giro col mio trabiccolo, prudente e circospetta, e mi prendo pure qualche maledizione dagli automobilisti per la mia imbranataggine (“Ma andare a piedi, no??”) ma non passa giorno senza che desideri farlo ed ho già i guanti in tasca da una settimana, anche se fa ancora caldo ma io mi porto avanti per non farmi sorprendere perché il freddo è una delle cose che non pensavo di sentire mai più nella mia vita e so che riviverlo sarà una specie di schiaffone ma, insomma, questo fatto di pedalare per la città è l’aspetto delle mie giornate che più si avvicina al sentirmi felice.

Perché ricrea, in piccolo, tutto quello che ho cercato di fare negli ultimi anni: andare dove volevo e quando volevo, senza che nulla mi ostacolasse.
Immaginando il ritorno a Milano, ciò che più mi riempiva di orrore era l’idea di rimettermi in macchina, rimettermi in coda, rimettermi a buttare ore della mia vita in mezzo al traffico, rimettermi a cercare parcheggio girando in tondo come un asino bendato ogni mattina e ogni sera della mia vita e, infine, non uscire più per non dovere riprendere la macchina anche quando non lavori, per non dovere riparcheggiarla, per non dovere riprendermi l’ennesima multa per sosta vietata ché penso di essere la cittadina di Milano che ne ha prese di più, negli anni, perché finiva puntualmente che mi rompevo le palle e, semplicemente, scendevo e la lasciavo là dove il mio sistema nervoso si era arreso, ed ho cartelle esattoriali che mi arrivano ancora adesso, dopo due anni che l’ho finalmente venduta.
L’idea di ricominciare mi atterriva.

E’ l’unica cosa che fa sì che il mio re-intruppamento non sia completo, la bici.
L’angoletto di anarchia, la fuga dalla caterva di impegni e responsabilità e lavoro e bisogni più o meno indotti a cui la macchina ti condanna, il liberatorio divertimento che ti viene dal sapere che, tra te e la tua meta, l’unica cosa con cui devi fare i conti è il fiato che hai. Non i divieti, non le altre macchine, non la fatica mentale del fa’ benzina/paga il parcheggio/cribbio qui è tutto bloccato, niente: vai esattamente dove devi andare, nel minuto esatto in cui ci vuoi andare. Ma che bello.

La Legnano da passeggio col cestello, quindi, basta e avanza per essere felice. Ma andrebbe bene pure un triciclo, la bici di Barbie, chissenefrega.
Purché il culo poggi su un sellino comodo, ché una non è partenopea invano, io sono felice.
Più o meno felice.
Felice quanto posso.

Quella feroce sensazione di libertà che in Egitto mi portavo dentro 24 ore al giorno, come una che è evasa da Sing Sing e proprio non ci può credere, al momento è congelata in qualche zona di me che identifico solo perché fa abbastanza male.

Questa piccola libertà che mi prendo adesso mi sa un po’ di metadone, in confronto, ché altrimenti la mia crisi di astinenza sarebbe francamente intollerabile.
Ma va bene così e, comunque, di meglio non so fare.

Una scopre che la migliore terapia per il mal d’Africa, a Milano, è pedalare circospette su una Legnano. Chi l’avrebbe mai detto.