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Dal mio piumone emergono un naso a patata, una guancia il cui colore rosa mi ha sempre sbalordito, delle ciglia molto nere e un ciuffo di capelli (boh, gialli?) bruciati dal sole del Sinai.

Arriva in taxi e chiedo al taxista: “Quanto le devo?” e lui: “Guardi, le faccio lo sconto, è stata una corsa piacevolissima, lei è la mamma napoletana, vero?”

Ci guardiamo, dopo un anno, e lei: “Mioddio, ma hai i capelli stranamente corti, no?” e io: “Anche tu, curioso colore…”
Poi, bando ai convenevoli: “Mamma, ma chi cavolo ti ha tagliato i capelli, sembri un fungo.” “Jean Luis David dietro piazza Napoli, che si sappia. Però tu sembri una carota, amore, ma che diamine di colore hai?”
L’analisi del rispettivo aspetto non si ferma da due giorni: si modula, piuttosto. E’ passata dalla fase affettuoso-cortese a quella schiettamente critica anche nota come “Diciamoci tutto”, poi è slittata verso il giustificazionismo dettagliato reciproco e, verso la serata di ieri, si è assestata sul fattivo-attivo-costruttivo con Pupi che mi insegue armata di forbici e riflessanti e io che la introduco alle virtù dell’epilatore e la verità è che manca, una figlia femmina, e riaverla indietro fa tanto bene, ecco, anche se tendono a somigliare un po’ a delle suocere, le figlie femmine, e a sentir lei dovrei passare i prossimi mesi a mangiare finocchi e a bere tè verde, credo, e grazie al cielo non fiata sulle sigarette, con mio stupore, ma deve essere perché, da Madrid, legge il blog.

O forse no: la guardo sbigottita mentre prende dei soldi, ieri sera, e le faccio: “E che ci fai, tu, con una bandiera basca sul borsellino?”
Incredula, io.
E lei, serissima: “No, è che io voglio essere una persona tollerante ma, di natura, non lo sono molto. Allora ho preso questo borsellino per allenarmi: poche cose mi stanno sulle balle come la questione basca, lo sai. Avere ‘sta bandiera può essere un buon modo per farmi passare l’anti-baschismo di cui soffro.”
“Oh.”
E quindi siamo qui: io, lei e un’ikurriña.
Stoiche.

La neo-ricomposta “casa delle donne” era piena di uomini, fino a poco fa, ché far stare zii ed ex mariti in 30 metri quadri non è scontato e si fa presto a sentirsi una folla.
Chiedo all’ex marito: “Ma quest’impazzimento sulle sigarette, qui in Italia, come lo vivi?”
Ride, ne accende una e mi racconta che stava attraversando un chiostro del Palazzo delle Stelline, l’altro giorno, e una signora si è precipitata fuori per dirgli che non si poteva fumare, lì.
Era dentro, la signora, ed è uscita apposta.
E lui la ha affontata e le ha chiesto di spiegarsi: “Io lo so che non si può fumare. Ma lei, per quale motivo si prende la briga di venire fuori a dirmelo?”
E ridiamo tutti mentre lui racconta della confusione della signora e io penso: “Be’: se a suo tempo lo sposai, un motivo c’è.” e lui dà voce al mio pensiero ricorrente, da quando sono tornata, e mi dice che c’è questo bigottismo italiano titillato dal governo e senza più freni ed ha il suo sempiterno accento spagnolo, mentre mi descrive l’Italia, la bimba ha la sua ikurriña e ci ascolta e io lo prendo in giro sulle doppie, ché è qui da 20 anni e ancora non le imbrocca, e mio fratello si unisce all’angolo di extraterritorialità dei miei 30 metri quadri e, insomma, tira aria di casa.

“Aria di casa”, poi, è un concetto impegnativo: qua, a dire il vero, succede che siamo nel mezzo di un capitolo del romanzo familiare che fino a due mesi fa ero assai lieta di vivermi da un continente diverso e trincerata dietro a un intero mare.
Mo’ sto qua, invece, e me lo vivo e me ne faccio una ragione, pensando che dieci anni di disciplina freudiana dovranno pur servire a porre dei limiti alla propria capacità di eludere e rimuovere e glissare, dico io.
Mica servono solo a tenere poster di argomento psicoanalitico appoggiati sul bidet, dieci anni di disciplina freudiana.
(“Mamma, scusa, ma tu ti fai il bidet davanti a Freud?” “Certo che no, amore: quello è Musatti!” “Ah, ok.”)

Si è ammalata appena è atterrata a Milano, la Pupina.
E’ a letto da ieri con 38 di febbre e il raffreddore ed io sono qui, armata di tachipirina e termometro davanti a un naso a patata, e sono tachipirine, termometri e nasi a patata che porto stampati indelebilmente nel DNA, e non ci sono Egitti o Spagne che tengano.
Talmente stampati dentro, li porto, che qualche ora fa ero lì che spiegavo al macellaio: “Mi dia del filetto o, comunque, una bistecca molto tenera: sa, è per la bambina.”
Me ne sono ricordata mentre tagliava la bistecca: se mi avesse chiesto quanti anni aveva la bambina, avrei dovuto rispondere “Ventidue” e spiegare che, d’accordo, una è un tipo distratto e questo particolare se lo scorda, spesso.