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Parliamo di cose serie, ovvero di timballo.

Io vengo da una stirpe di donne incazzose che cucinano bene.
La cucina della mia casa paterna ha segnato l’immaginario di tutti noi e, da sempre, porto stampate nella mente le mani rugose della mia bisnonna che impugna il coltellino con cui affettava tutto rifiutando con sdegno le affettatrici elettriche, e il sapore della pasta frolla cruda, l’odore del ragù messo a cuocere la mattina presto, certe mele piccole e asprissime che mi facevano impazzire, la laboriosità instancabile delle donne di casa su cui regnava, inflessibile, mia nonna.

Della mia bisnonna, si mormorava che avesse assassinato il marito.
Lui era un gentiluomo di provincia amante dei vini e delle donne che andava in calesse a Roma e chissà come a Parigi, e si circondava di attrici. Lei ne era orgogliosissima: “Pensa come è bello, il mio Eugenio, che ha avuto per amante persino Josephine Baker!” esclamava, dolce e fiera.
Poi mia madre, che è di un’altra razza e non ha mai trovato motivo d’orgoglio nel sapere il proprio uomo tra le attrici, mi spiegò che il bisnonno si ammalò di fegato, a un certo punto. I medici gli prescrissero una severissima dieta e la bisnonna, soave e perfida, per tutta risposta intensificò la preparazione di manicaretti, sughi e strutti, conducendolo prematuramente alla tomba.
La cucina è un potere, mi è sempre stato chiarissimo.

Regnavano su molti uomini, le donne della mia casa paterna.
La cucina era il centro del potere, strutturato in modo rigidamente gerarchico al cui vertice c’era, semplicemente, quella che cucinava meglio.
La nonna appunto, che insegnava con parsimonia e solo a chi, secondo il suo insindacabile parere, se lo meritava.
Quando faceva il dolce al caffè, soprattutto, ci permetteva di rimanere in cucina fino al momento della tritatura delle nocciole. Poi dovevamo uscire e lasciarla sola. La ricetta completa l’avrebbe lasciata in eredità alla più meritevole tra le sue nipoti, diceva.
Non fui io, ahimé.
Essere la pecora nera di casa comporta i suoi svantaggi.

Gli uomini ronzavano attorno alla sala da pranzo, comparse di seconda fila rispetto al rito che si celebrava altrove.
Avevano tutti dei segreti, pensavo.
Degli errori di gioventù, alcune storie d’amore finite male con donne troppo romantiche, troppo piagnucolose, troppo diverse. Il prozio. Mio padre.
Ecco: essere romantiche o piagnucolose, a casa mia, era la quintessenza dell’orrore.
Era un clan silenzioso e ispido, il mio. Terrigno. Conservatore.
Le donne deboli erano solennemente disprezzate.

In nessun altro luogo come in quella sala da pranzo io ho sentito, insieme, l’orgoglio, la forza e il senso di oppressione che ti dà l’appartenere a qualcosa.
Ne ricordo la luce, le tovaglie bellissime, uguali a quelle che la nonna mi teneva da parte per quando mi sarei sposata, i bicchieri di cristallo, i fiori, e le due bonnes di mia nonna, con i grembiuli bianchi e le crestine inamidate, che sapevano uccidere in veranda gli animali da mangiare portati dai contadini in omaggio al nonno, e ridevano del mio orrore.
La credenza sotto cui mi andavo a rifugiare con un libro, e ci passavo serate intere.
La gioia della presenza di mio padre, che vedevo così poco, e il silenzio assoluto ma carico di disapprovazione che circondava l’esistenza di mia madre, assente, così diversa.
Un mucchio di silenzi su cui sorgeva, solidissima, la conversazione di casa, sempre ironica, sorniona, allegra, a volte un po’ crudele. Leggera.
E il piacere di quelle infinite portate, quei cibi uguali ad ogni festa, fatti secondo una tradizione perpetua e guai a sgarrare, guai a innovare. Non si poteva concepire peccato più grave del cambiamento arbitrario di una ricetta, nella mia casa paterna.
Sarebbe stato come rifiutare l’istituzione stessa della famiglia.

Noi ci siamo dispersi per mezzo mondo ma non siamo mai andati troppo lontano da quella sala da pranzo.
Ci siamo sempre tornati, anno dopo anno, o sennò l’abbiamo portata dentro.
Non so contare le volte che ho fatto improbabili struffoli in luoghi improbabili per improbabilissimi commensali che li guardavano con diffidenza.
E il mio orgoglio solitario, la consapevolezza segreta di averli fatti a regola d’arte. Sono ricette che non sbaglio, quelle.

Pochi, in casa mia, mi assocerebbero a quei miracoli culinari che hanno saputo legare intere generazioni intorno a una sala da pranzo.
Da noi pecore nere ci si aspettano abilità di altro tipo.
Sta di fatto che questo Natale, finalmente, è toccato a me cucinare per il mio patriarca.
E sapevo esattamente cosa voleva.

Il giorno prima prepari il ragù.
Il ragù non è la salsa alla bolognese.
Si fa mettendo un grosso pezzo di carne di maiale a rosolare in un letto di cipolle, olio, burro e uno spicchio d’aglio. Nella carne di maiale avrai fatto dei buchi profondi, prima, che vanno riempiti con uva passa, pinoli, aglio, prezzemolo, pecorino e pepe.
Quando la carne è rosolata, sfumi col vino e poi ci aggiungi i pelati.
Tantissimi.
Devi farne un mucchio, di ragù. Di più. Più che puoi, ché è sempre troppo poco.
A un certo punto ci aggiungerai le salsicce. E il basilico.
Poi ne aggiungerai altro, di basilico. Dopo un po’.
E, a fuoco lentissimo e semicoperto, lo lascerai cuocere per ore. Non ti so dire fino a quando. Lo capisci dal colore e dalla consistenza, quando è pronto. Tre ore, se va bene. Anche di più.

Il giorno dopo, in una scodella grande, mischi la ricotta con due mestoli di sugo e un po’ di parmigiano.

Poi prendi della carne trita di maiale e fai l’impasto per le polpette. Con pazienza infinita, formi delle polpettine non più grandi di una biglia. Piccolissime.
Le fai bollire un nanosecondo in acqua poi le butti nel ragù, da cui avrai già tolto il braciolone e le salsicce e le fai andare un po’.

Cuoci al dente le lasagne (possibilmente quelle De Cecco arricciate ai bordi) e le stendi tutte belline su un canovaccio.

Attorno, prepari una serie di piattini contenenti: mozzarella a tocchetti. Salame piccante napoletano a tocchetti. Salsicce del ragù a tocchetti. Uova sode a fette. Parmigiano grattuggiato.

Base di ragù in fondo alla teglia.
Poi prendi le lasagne, una a una, e le passi nella ricotta col sugo.
La farcitura deve cominciare solo dal secondo strato, sennò è troppa.
Lasagne passate nella ricotta. Mozzarella, salame, uova sode etc. Sugo con polpettine. Parmigiano. Ancora lasagne con ricotta. Eccetera.
Finisci con lasagne, ragù e parmigiano e inforni.

Paradisiache.

Sarà stato il dovere morale nei confronti del mio patriarca, ma non mi erano mai venute bene come quest’anno.
Mio padre le ha assaggiate con un’espressione assolutamente normale e, un attimo dopo, gli si è dipinto un profondo rispetto negli occhi: “Sono perfette. Sono loro. Quelle.”
Idem per gli struffoli: “Li fai secondo tradizione! Come la nonna!”

Sì.
E ne sono molto fiera.
So di avere fatto una cosa bella e di avere riportato, per un attimo, quella sala da pranzo dove doveva essere, tra le persone che avevano voglia di riassaggiarne i sapori.
E di avere anche rassicurato qualcuno, ché certe cose non spariscono.
Rimangono vive, persino nelle mani da cui meno te lo aspetteresti.
La vita è sorprendente.
Ed io, dopo tutto, per li rami discendo, e non mi dispiace affatto.
Dopo tutto.

(Mia figlia ha preparato un’infinità di palline, questo Natale: palline di carne trita, palline di struffoli, non ne poteva più: “Mamma, ma non è possibile stressarsi tanto per un piatto! Io non lo farò mai, te lo assicuro!” Chissà. Ci avrei giurato anch’io, tempo fa.)