Per arrivare a casa mia ci sono due possibilità che corrispondono a due portoni diversi.
Uno è un portone scalcagnato, ed io l’ho scoperto una settimana dopo essere arrivata, che potevo entrare anche da li. Superi delle prime scalette buie e ti si apre davanti una meraviglia di scalinata di marmo: ampia, diroccata, abbandonata a se stessa. Soffitti alti, pareti scrostate, qualche probabile fantasma. Continui a salire e passi un ponte coperto che attraversa la strada. Sembra Venezia, ma sotto non c’è il canale. C’è la stradina in cui abiti e dal ponte la domini, tutta.
E poi continua, la vetusta scalinata di marmo, fino all’ultimo piano.
Altrimenti ci arrivi in ascensore, all’ultimo piano, passando dal portoncino moderno e dall’atrio ristrutturato, salutando i vicini del locale alla moda e della scuola per artisti, i trentenni di sempre con l’eterna barba di tre giorni che – rifletti in ascensore – ai trentenni sta sempre tanto bene.
E, anche così, arrivi all’ultimo piano.
L’ultimo piano è aperto: abito in quella che deve essere l’unica casa di ringhiera di tutta Genova, ed è che una si porta la propria storia addosso ovunque vada. Nella mia c’è anche Milano, devo farmene una ragione, e la vita me lo ricorda spedendomi a vivere in una casa di ringhiera, appunto.
A Genova.
A quel punto, se è proprio a casa mia che vuoi andare, superi un corridoio e un cancelletto, ti arrampichi su per una scala dritta e ripida e sei nella mia torretta.
Potrebbe non essere solo mia, la torretta: c’è un’altra porta e un’altra casa, quasi di fronte alla mia.
Però non ci vive ancora nessuno, lì, quindi tutto il regno è mio.
Io, dunque, possiedo una casa, ma anche una scala, due pianerottoli e un cancello dietro cui sprangare i miei possedimenti e sentirmi chiusa dentro anche quando tengo la porta di casa aperta per fare entrare l’aria, ché nei giorni di pioggia le finestre devono rimanere chiuse. A furia di allagarmi la casa, l’ho imparato.
Il pianerottolo, ieri, era la mia officina di bricolage.
Terrorizzata dai commentatori/consulenti che mi avevano avvertito delle inaudite capacità del mordente di macchiare indelebilmente tutto, pelle compresa, ho riempito tutto di giornali (El Pais di domenica, parecchio allarmato sul “nido di vespe” afgano) e di plastiche e, vestita da sminatore nucleare – tuta a prova di macchie, guanti da cucina e pinze in testa – ho dipinto le mensole. Senza danni, mi pare.
E tu non sai quanto mi sentivo pioniera, intanto.
Fossi stata, chessò, in Eritrea, anziché in Italia, sarei stata una donna completamente felice. Ma anche così, non ci scherzavo. Con le mie canzonacce spagnole che mi arrivavano fino al pianerottolo (Manzanita e Chiquetete, senza ritegno) e la confidenza col pennello che cresceva ad ogni mensola, pensavo che il bello del vivere in una torretta sopra al mondo è che puoi pure cantare tranquilla, mentre dipingi, e il “Gitano soooy, de mis raices nunca voy a olvidaaarme” ha impregnato la mia futura libreria più del mordente e dell’umidità della pioggia che mi arrivava dalla scala, ed è che il “fare casa”, pensavo, consiste proprio in queste cavolate qui.
Contenta della mia torre, sì, in una città e in una casa che, più di tutto, associo alla pioggia.
La pioggia della prima volta, quando cercavo casa avvolta nei miei straccetti estivi, quasi scalza e zuppa come un babà, arrancando dietro Marzia che era vestita da genovese e camminava da genovese – correva, quindi – ed io avevo il fiatone, la fontana di Piazza De Ferrari mi soffiava addosso completando l‘opera della pioggia e non esisteva nulla al mondo che mi facesse pensare che l’avrei trovata, ‘sta benedetta casa.
Ad Agosto, in un città chiusa dove esisteva solo Marzia, materializzatasi dalla mia Gmail perché Dio c’è e lei ne è l’evidente dimostrazione.
La pioggia della sera in cui uscimmo da un ristorante di Castelletto, mi pare, ed eravamo in questo viale pieno di pini che era a Genova ma poteva essere via Boccaccio, nella mia città, o certe zone del Vomero e, comunque, se mi avessero bendato e mi avessero chiesto di riconoscere il luogo in cui ero in base all’odore che sentivo – umidità, pini e terra – io avrei detto: “Sono a Napoli, ho dieci anni, sono appena scesa dal 140, sto andando a casa”.
Bentornata sul Mediterraneo, santo cielo.
La pioggia di quando mi si allagò completamente la mia casetta nuova di zecca e, di fronte alle pareti zuppe e a un lago che mi svuotava di qualsiasi forza, mi parve di frantumarmi come un biscotto e, del tutto irrazionalmente, mi ritrovai a chiedere conforto a quello che, fino a qualche settimana prima, era l’uomo con cui stavo.
Non me ne diede ed io, più razionalmente, presi uno straccio e tirai su l’acqua.
Poi la sera mi si affacciò in chat, quell’uomo lì. Per comunicarmi le sue fantasie erotiche.
Ed è che non tutti la aiutano, una donna in difficoltà, ma parecchi ci si arrapano, ad immaginarla.
E’ il motivo fondamentale per cui non è mai il caso di trasformarsi davvero in biscotto, fosse anche solo per un attimo all’anno: proprio non conviene.
E’ la più in perdita delle operazioni possibili, visto che non sei tu a divertirti.
E la pioggia di quando traslocai, mamma mia, e toccai il fondo di ogni possibile crollo nervoso di fronte a un Webmaster attonito che ci è stato sette anni, con me, e così esaurita non mi aveva visto mai.
Il Webmaster-salvatore che, quando mi ha visto nei guai, invece di farsi le pippe in chat ha affittato un furgone a Bolzano e ha fatto il giro delle mie cantine e la raccolta dei miei scatoloni: scatoloni nel suo garage, scatoloni da Giuanin a Segrate, da Antonio a Milano, non finivano più.
E me li ha portati a Genova, e non me lo scordo finché campo.
Non mi sono coperta d’onore, la sera in cui abbiamo trasportato tutta ‘sta roba dal furgone fino a dentro casa mia.
La scena era la seguente: c’era il Webmaster, c’era Marzia, c’era Pier, c’era Mohamed il marocchino (e un giorno la dovrò raccontare, l’incredibile vicenda di me che cerco un facchino marocchino a Genova, città che trabocca di facchini marocchini, e – unica al mondo – non mi è dato di trovarne), c’era Iri e c’ero io.
Poi c’era questo enorme Ducato che proprio non ci passava, nel vicolo del centro storico in cui abito io, e tocca parcheggiarlo nella piazza più sotto.
C’è, quindi, una terrificante salita da fare a piedi con gli scatoloni. Tutta la mia strada, con tutti gli scatoloni. In salita, sì. A piedi.
E c’è che, nel momento esatto in cui parcheggiamo il furgone e cominciamo a svuotarlo, si aprono i cieli, viene giù un fulmine e scoppia il diluvio.
Il diluvio, proprio.
Non una pioggerellina.
Il diluvio.
L’essere umano è complesso.
Io, per esempio, non sono del tutto priva di sense of humour, credo. Ma lì, in quella piazza e in quel momento, deve essermisi sciolto via con la pioggia, non sapevo più nemmeno cosa fosse.
Ce lo avevano tutti, il senso dello spirito, tranne io. Tranne quella che più avrebbe dovuto averlo, anche per una banale questione di civiltà.
No, invece. Ero solo travolta.
Un mucchio di gente zuppa che era lì al solo scopo di darmi una mano, ed io incapace di provare nulla che non fosse violenza.
Già.
L’essere umano è complesso ed io so di possedere, dentro di me, una carica di violenza che ho elaborato, addomesticato, controllato, domato, ingabbiato e reso completamente inoffensiva con un lavoro di decenni, di cui uno intero passato a fare analisi.
Tu mi vedi e sono una mite prof, da qualche anno pure rotondetta.
Ma questa cosa c’è. Dorme da decenni, ma c’è ed io lo so: so che devo starci attenta perché, tutte le volte che l’ho sentita, non ero io a dominare lei. Le volte che si è svegliata, è sempre stata lei a dominare me.
Non si svegliava da 25 anni, ormai: si è svegliata quella sera lì.
Non è che abbia fatto troppi danni: si è svegliata mentre giocavamo a spingerci sotto la pioggia, io e Iri, e un attimo dopo non ero più la mite prof perbene di 44 anni ma una specie di teppista da vicolo che non desiderava altro che spaccarle la faccia per davvero, a Iri, non so assolutamente perché, e ci è mancato un soffio che non succedesse sul serio. Potevamo finire a pugni nei vicoli, sotto la pioggia, ed era la cosa che più desideravo al mondo, in quel momento. L’unica. Avevo violenza fino alle orecchie, e voglia di fare e farmi male.
Mi manca ancora l’aria, se ci penso, e sento l’adrenalina che mi torna su. Un sensazione forte, intensa.
E poi l’intervento incazzatissimo di Marzia che ci rimette in riga come fossimo due bambine dementi, io che desisto dall’imprendere una rissa e, a quel punto, non so più che farmene, della mia adrenalina, e mi ficco nel furgone a piangere, determinata a non uscirne più.
Le scene del trasloco.
Il furgone buio, un mondo tutto bagnato ed io seduta lì dentro, tra gli scatoloni, tutta aggrovigliata come nella pancia della mamma.
La piazza, i cassonetti ed io che, manco mezz’ora prima, svuotavo nei cassonetti le cose che mi rifiutavo di trascinare fino a casa: le agende di anni, carte che non saprò mai cosa fossero, il presepe dell’infanzia di mia figlia.
Tutto nella spazzatura e, sopra, il diluvio.
Io nel furgone e il Webmaster che arriva e mi abbraccia: “Stai tranquilla. Davvero, stai tranquilla. Guarda che io ci torno, ad aiutarti. Te lo prometto. Non ti preoccupare, stai tranquilla.” La sua sempiterna capacità di rassicurarmi ed io che, per la prima volta in tutta la serata, prendo in considerazione l’idea che questo incubo può anche finire, che non durerà per sempre.
Che non lo passo, il resto della vita sotto la pioggia con gli scatoloni, e che poi arriva domani ed è finita.
Una bambina di 44 anni, che passa dalla pancia della mamma alle braccia del papà che la tranquillizza.
Pensa che serata.
E l’altra scena-chiave. Marzia furibonda che mi fa: “Piantala, ché ti mollo qua.”
Ed io, a mia volta furibonda, che tra un “Mollami pure!” e l’altro, finalmente dico la verità: “Cosa dovrei fare, scusa? Tutti qui ad aiutarmi ed io mi sento male ad essere aiutata! Io non vorrei avere bisogno di aiuto! Cosa deve fare, una che viene aiutata in una simile situazione del cazzo??”
E lei, capendo perfettamente ogni virgola di ciò che ho appena detto, mi pianta lo sguardo in faccia e mi fa: “Sorridere e dire grazie. Questo, deve fare. E basta.”
Ed io la guardo e mi pare di vedere tutte le donne di casa mia, tutte negli occhi di Marzia. Mia nonna, mia madre, tutte le donne da cui provengo: tutte in quella frase, detta in quel modo, con quello sguardo.
“Hai ragione. Sì. Hai assolutamente ragione”.
Ed è stato risolutivo: ho preso il mio posto nel trasbordo-scatoloni e basta.
E poi è finita.
Fatto.
Non so se ho sorriso; non credo.
“Grazie” l’ho detto, per quello che potevo.
Conto sul poterlo dire meglio, prima o poi.
Mi sembra che siano passati mille anni, da quel trasloco lì.
Un’altra epoca, un’era diversa.
Continuo a essere un po’ sensibile alle cose che non so fare, e dipingere le mie mensole mi ha divertito, adesso lo so, ma è stato un divertimento che ha dovuto superare qualche antico nodino di perplessità.
Adesso sto aspettando Marzia e Pier per montarle, ‘ste mensole, e intanto scribacchio al pc.
Davanti a un aperitivo, l’altra sera, ci dicevamo che le avremmo montate domenica, appunto, e lei mi fa: “Sì, ma guarda che se piangi, mentre le montiamo, io prendo e ti mollo, sei avvisata!”
Lo scrivo e ridacchio.
Piangere?
Chi, io?
(Cia’, che non vedo l‘ora.)
“Potrebbe non essere solo mia, la torretta: c’è un’altra porta e un’altra casa, quasi di fronte alla mia.”
E se a Torino ci fosse una ragazza che cerca proprio una casa da riempire a Genova, come potrebbe mettersi in contatto con te?
Che’ e’ una cara amica e sapertela vicina mi picerebbe anzicheno…
Tu non te lo immagini nemmeno, quanto io sia pigra nella lettura dei blog: un post che sia lungo più di dieci righe mi mette già ansia. Ma qui non accade e ci sarà pure una ragione io dico. Lia chissà quante di noi hanno letto e riletto seriamente questo tuo passaggio : “non tutti la aiutano, una donna in difficoltà, ma parecchi ci si arrapano, ad immaginarla.
E’ il motivo fondamentale per cui non è mai il caso di trasformarsi davvero in biscotto, fosse anche solo per un attimo all’anno: proprio non conviene.
E’ la più in perdita delle operazioni possibili, visto che non sei tu a divertirti.” Abbastanza vero ma… non disperiamo :-)
sei pregata di scrivere peggio e di evitare di farmi sorridere tra le lacrime, sister, che non è affatto carino.
mi sento non solo inutile, ma ho l’impressione di aver contribuito a farti soffrire.
poi ci penso, e se non ci fossi stata io, col piffero che scrivevi questo post, che per alcuni è una carezza, e per altri (un altro) un meritato calcio in kiulo.
adesso si che ti si può dire: bentornata.
dacia
Dille di scrivermi a haramlik@gmail.com, magari.
Non so se è ancora sfitto o solo momentaneamente disabitato, ma se volete mi informo.
Si riparte vedo.
Come ti dissi settimane fa: le solide radici di una casa – l’averla e il metterla su e curarsela – rendono tanto tanto forti.
Sono molto felice per te.
Un bacio
Dopo aver letto il post, c’e’ una cosa che voglio dire,GRAZIE WEBMASTER, SEI UN GRANDE!!!!
Ci tengo a chiarire che la mia precedente offerta di aiuto, benché vanificata in partenza dalla distanza, non aveva nessun intento autoerotico. No, per precisione.
:DDDDD
E’ vero, resistere come si può, magari piangendo e arrabbiandosi, ma non imbrogliarsi…
Interessante commento, Patrizia: se solo mi spiegassi cosa vuoi dire.
Rimango in fervida attesa.
“E’ il motivo fondamentale per cui non è mai il caso di trasformarsi davvero in biscotto…” mi riferivo a questa frase, è meglio resistere, anche male, con lacrime e nervi, che coccolarsi in delle illusioni su se stessi e sugli altri… spero sia più chiaro, ciò che hai detto mi ha riportato alla mente una mia esperienza in cui sono giunta alla tua stessa conclusione.
Non è sempre facile essere forti ed è anche normale che uno si conceda la libertà di assecondare le proprie propensioni e manifestare le proprie debolezze. Non si può essere sempre razionali e forti cavolo! In fondo stiamo solo vivendo…
La pioggia di Genova….incredibilmente devastante. Sì. Ma ti ha fatto massaggiare il cuore da persone che ti vogliono bene, con quello sguardo di Marzia come gli sguardi di mia nonna, di Bea, sguardi che sono tutto, e allora ben venga tutta quella pioggia.
Grazie, come sempre, per i tuoi pensieri.
“Dille di scrivermi”
Fatto.
Ora e’ tutto nelle sue mani, se lo fara’ o meno non e’ dato sapere… (Sai quelle persone un filino indecise? Ecco. Grazie comunque vada.)
e che ci facevi a Napoli a dieci anni appena scesa dal 140? tornavi a casa…?!
epico .. non mi vengono altri aggettivi (per quel po’ che conosco genova) .. poi in effetti il livello medio maschile a volte e’ molto sotto il minimo sindacale .. la mia fortuna di essere uomo e’ che non ne sposero’ mai uno .. :-)
ps: non faccio in tempo a commentare un post che ne arriva un altro ..