Interrompiamo un attimo (ma proprio un attimo) la nostra missione divorzile per dare spazio a questo intervento di Marino Badiale sulla scuola.
Ne consiglio la lettura perché dice esattamente quelle tre semplici verità che nessuno, dai politici ai media all’opinione pubblica, ha voglia di dire.
Un unico appunto a Marino: io lo sposterei leggermente in avanti, l’inizio della trasformazione della scuola. All’epoca di D’Onofrio, per essere precisi, e della sua sciagurata abolizione degli esami di riparazione.
I. Un suicidio di massa.
Nei libri sugli animali che leggevamo da ragazzi si raccontava la triste storia dei lemming. Questi piccoli roditori delle tundre nordiche, simili a criceti, a intervalli di tre o quattro anni, spinti dalla scarsità di cibo, iniziano a migrare, e queste migrazioni si concludono in modo drammatico con i poveri lemming che si gettano in mare dalle scogliere, realizzando un autentico suicido di massa.
Diventati adulti, abbiamo scoperto che questa storia, così impressionante e capace di colpire l’immaginazione di un ragazzo, è una leggenda, diffusa nel mondo, pare, da un documentario della Disney.
Pur sapendola falsa, vogliamo però usare questa immagine del suicidio di massa dei lemming per iniziare a parlare della situazione dei docenti della scuola italiana. Enunciamo subito la nostra tesi fondamentale: la realtà della scuola italiana è caratterizzata da un suicidio di massa degli insegnanti. L’immagine dei professori-lemming descrive bene, a nostro avviso, alcuni aspetti decisivi delle vicende della scuola in questi ultimi anni. Le caratteristiche di tale suicidio di massa possono essere riassunte nei tre punti seguenti:
1. Si è avuta negli ultimi anni una serie di interventi legislativi e amministrativi sulla scuola che hanno alterato in profondità i caratteri essenziali della scuola stessa. Questi interventi possono essere riassunti nella formula “riforma Berlinguer-Moratti”.
2. Questa riforma ha come conseguenza la dequalificazione del lavoro del docente e la degradazione culturale e sociale (con conseguente impossibilità di miglioramento economico) dell’intera categoria dei docenti della scuola italiana.
3. I docenti hanno nella sostanza accettato tutto questo, spesso collaborando alla propria degradazione, più spesso lamentandosi, ma senza mai ribellarsi seriamente.
Perché la riforma Berlinguer-Moratti ha come conseguenza il degrado culturale e sociale dei docenti? Perché uno dei suoi contenuti fondamentali è la svalutazione dell’insegnamento dei contenuti disciplinari, di quelle cioè che nel linguaggio comune sono le “materie” tradizionalmente insegnate a scuola. Questo fatto non è di immediata percezione, in primo luogo perché non viene enunciato esplicitamente nei testi legislativi e amministrativi che hanno articolato la riforma Berlinguer-Moratti, in secondo luogo perché si tratta di una tendenza di fondo che non è ancora arrivata alla sua compiuta realizzazione. La svalutazione dell’insegnamento delle “materie” nella scuola italiana contemporanea rappresenta però la ratio implicita di una serie di misure che possono essere comprese solo alla luce di tale scelta di fondo. Gli esempi potrebbero essere numerosi, ne facciamo solo alcuni per mantenere la lunghezza di questa lettera entro limiti ragionevoli. Un primo aspetto è l’incentivazione di una miriade di attività parallele all’insegnamento disciplinare (fra cui i cosiddeti “progetti”, ma non si tratta solo di questi), attività che implicano la continua interruzione dell’orario curriculare, cioè dell’orario dedicato all’insegnamento disciplinare stesso. Un altro aspetto è l’introduzione di materie nuove che si aggiungono alle materie tradizionali implicando una diminuzione dell’orario per tutte le materie. A ciò si possono aggiungere gli spostamenti di docenti dall’insegnamento di materie per cui hanno una preparazione specifica all’insegnamento di altre materie, cosiddette “affini”, spostamenti motivati esclusivamente da esigenze di organizzazione scolastica. Analogo a questo fenomeno è quello delle abilitazioni con concorsi speciali che prescindono parzialmente o totalmente dalla preparazione specifica. Già da questi semplici esempi si capisce come la ratio che li unifica e li rende comprensibili sia quella della svalutazione dell’insegnamento delle “materie” tradizionali: un insegnamento a cui viene dedicato sempre meno tempo e rispetto quale non si ritiene importante che venga svolto da docenti preparati.
Poniamoci adesso il problema di capire cosa significhi tutto questo rispetto alla scuola e rispetto alla vita di chi nella scuola ci lavora. Significa, in sostanza, che la scuola di Berlinguer-Moratti non è più, a parte alcune sue zone residuali, una scuola. E’ diventata un’istituzione completamente diversa, che della scuola conserva, con limitate eccezioni, solo l’immagine esteriore. A questa nostra affermazione qualcuno potrebbe obiettare che la scuola non ha solo la funzione di “insegnare delle materie”, ma ha altre funzioni, anche più importanti, di tipo socio-educativo: come per esempio far crescere la capacità relazionale dei giovani, aiutare il loro inserimento nella società, sviluppare in essi il rispetto per le culture e i popoli del mondo, e la lista potrebbe ovviamente continuare. Se questo è vero, il permanere di tali funzioni e scopi socio-educativi conserva un significato e un ruolo profondo alla scuola, anche se diminuisce l’attenzione alle tradizionali “materie”.
Questa obiezione, in apparenza ragionevole, è in realtà un vuoto sofisma, che denota una profonda incomprensione di cosa sia la scuola. Per capire quanto affermiamo, basta riflettere sull’esempio seguente. Tutti siamo d’accordo sull’importanza dell’attività sportiva per i giovani. Una giusta dose di attività sportiva è necessaria allo sviluppo equilibrato del corpo, ed ha anche importanti aspetti educativi: abitua alla corretta elaborazione di emozioni come l’aggressività e la competitività, al rispetto delle regole del gioco e dell’avversario, alla collaborazione con i propri compagni nel caso degli sport di squadra. E’ per tutti questi motivi che molti genitori fanno fare ai propri figli le più diverse attività sportive. Immaginiamo però che quando portiamo nostro figlio nella tal palestra per iscriverlo ad una qualche attività sportiva ci venga fatto dai responsabili il seguente discorso: poiché lo sport ha importanti funzioni nello sviluppo fisico ed emotivo dei giovani, ma d’altra parte fare sport è faticoso, abbiamo pensato di perseguire le importanti funzioni educative dello sport tenendo i ragazzi fermi e seduti. Cosa penseremmo di una simile proposta? Penseremmo che chi ragiona in questo modo o sta scherzando, o è un pazzo, o non sa di cosa sta parlando. E sicuramente porteremmo nostro figlio in un’altra palestra. Ma sostenere che le finalità socio-educative della scuola possono essere perseguite trascurando l’insegnamento disciplinare è un’assurdità dello stesso tipo. Infatti l’essenza della scuola, così come si è formata nella nostra storia, sta in questo: la scuola è quella particolare “agenzia educativa” nella quale le finalità educative sono perseguite attraverso l’insegnamento di contenuti disciplinari. Ovvero, la scuola esiste perché (e finché) si ritiene che alcune particolari “materie” abbiano una pregnanza culturale e umana tale che, attraverso il loro insegnamento, sia possibile perseguire quei fini sociali ed educativi di cui si diceva sopra.
La scuola esiste perché si ritiene, o si è ritenuto fino a tempi recenti, che insegnare letteratura, matematica, filosofia, fisica eccetera rappresenti un modo, il modo specifico appunto della scuola, di educare i giovani.
E’ questo lo specifico della scuola. E’ questo che distingue la scuola da altre “agenzie educative” come la famiglia, il gruppo di amici, i boy scouts o quant’altro.
Ma se tutto questo è vero, cosa resta della scuola, una volta che essa sia privata del suo elemento specifico e caratterizzante, cioè l’educazione dei giovani attraverso l’insegnamento di specifiche materie? La risposta è ovvia: non resta nulla. La scuola viene di fatto abolita, e il tempo della scuola diventa un enorme tempo vuoto che bisogna riempire con le più diverse e strane attività. E cosa diventano i docenti, dentro a questa scuola che non è più una scuola? Qual è il loro ruolo, una volta abolito di fatto il loro ruolo specifico dell’insegnamento delle “materie”? Nella squola di Berlinguer-Moratti i docenti sono ridotti ad essere dei badanti o dei baby-sitter. La lenta cacciata dei docenti dal ceto medio alle zone più basse della stratificazione sociale è una conseguenza ovvia di questa loro dequalificazione professionale.
Si potrebbe obiettare che la professionalità dei docenti (e quindi il loro livello sociale ed economico) viene salvata insistendo sulle loro competenze pedagogico-didattiche, invece che su quelle disciplinari. I docenti cioè sarebbero quelle persone che sanno come si insegna, e tali persone sarebbero importanti anche in una scuola nella quale si dà meno importanza a cosa si insegni. Questa obiezione è analoga a quella che abbiamo poco fa confutato. In sostanza, dire che non ha importanza cosa si insegna perché l’importante è che venga insegnato bene, equivale a dire che i contenuti dell’insegnamento non hanno più nessuna importanza. Ma questo ha come conseguenza la scelta dei contenuti più facili e meno impegnativi possibili: se tutto è uguale a tutto, perché docenti e studenti devono sobbarcarsi la fatica di leggere Manzoni, quando è tanto più gradevole leggersi Camilleri? Il punto è che, una volta impostate le cose in questo modo, si è su un piano inclinato nel quale non ci si può fermare. Perché leggere Camilleri a scuola quando ascoltare le canzoni di De André è ancora più gradevole e più facile? Si vede facilmente che, lungo questo piano inclinato, si torna alla degradazione professionale dei docenti. Infatti, di quale mai competenza pedagogica c’è bisogno per tenere i ragazzi in classe a fare cose piacevoli e divertenti come ascoltare canzoni1? E’ chiaro che, in questo contesto, la figura del docente si riduce, come già abbiamo detto, a quella di una badante o di una baby-sitter.
Possiamo allora concludere che nella riforma Berlinguer-Moratti è implicita una sostanziale degradazione della figura del docente. Tale degradazione determina il degrado economico e sociale dell’intero ceto dei docenti, il loro ridursi a poveracci degni solo, a seconda delle inclinazioni, di compassione o disprezzo.
Tale degradazione ha, come ulteriore conseguenza, l’abbassamento del livello culturale e della maturità intellettuale dei giovani che escono dalla scuola italiana. E’ un fenomeno che chi insegna all’Università ha ben chiaro, e che genera un forte pessimismo sul futuro del paese.
Aggiungiamo infine che, a nostro avviso, il degrado della scuola arriverà presto a mettere in pericolo la stessa sicurezza fisica dei docenti: è chiaro infatti che una scuola intesa come grande parcheggio per ragazzi non ha più alcuna barriera che la protegga dalla degradazione del sociale. Gli episodi di violenza nelle scuole, di cui leggiamo sui giornali, sono anch’essi collegati a quella negazione del ruolo specifico della scuola, che è l’anima della riforma Berlinguer-Moratti, e sono destinati ad aumentare di numero e di gravità.
II. Combattere il degrado.
E’ possibile arrestare questo degrado? E’ nostra convinzione che sia possibile, ma estremamente difficile. Occorre infatti rendersi conto che un fenomeno di tale rilevanza storica come l’annientamento della scuola italiana non può essere l’effetto di una causa risibile come la miseria intellettuale e politica di personaggi del calibro di Luigi Berlinguer o della signora Moratti. Questi personaggi, assieme al resto del miserabile ceto politico e giornalistico di cui essi sono perfetti rappresentanti, possono agire indisturbati solo perché, evidentemente, ciò che fanno esprime alcune tendenze profonde del nostro tempo. Occorre cioè rendersi conto che la negazione del ruolo del pensiero e della cultura è oggi una tendenza spontanea e fortissima, e che lottare per difendere la scuola come luogo in cui si educano i giovani attraverso la loro introduzione nel mondo del pensiero e della cultura, significa lottare contro aspetti strutturali di questa fase storica. Significa cioè mettersi volontariamente e lucidamente in una posizione “conservatrice” e “anacronistica”. E’ questa lucidità che sembra mancare all’insieme dei docenti italiani, ed è questa mancanza di lucidità a rendere particolarmente difficile la lotta contro il degrado.
Per combattere contro l’annientamento della scuola italiana, che si traduce nel degrado della figura del docente, occorre naturalmente combattere l’aspetto centrale di tale annientamento, aspetto che abbiamo individuato nella prima parte. La negazione della scuola è conseguenza logica della negazione della centralità delle tradizionali “materie di insegnamento”: l’italiano, la matematica, la filosofia, la fisica, la storia, la geografia e poche altre. Per combattere il degrado occorre allora rimettere al centro proprio le tradizionali “materie”: occorre avere come punto fermo e inderogabile l’assioma che la scuola è, essenzialmente, il luogo dove si insegnano italiano, matematica, filosofia, fisica, storia, geografia e poche altre materie fondamentali. Con questo intendiamo dire l’insegnamento delle materie tradizionali deve costituire l’asse culturale di riferimento della scuola italiana. Questo ovviamente non esclude che nelle varie scuole si insegnino anche altre cose, a seconda del tipo di istituto. Ma deve essere chiaro che esiste un fondamento culturale omogeneo per tutta la scuola italiana, e che esso è rappresentato da poche materie fondamentali. Ogni discorso sulla scuola deve partire da qui. Da qui si può cominciare a parlare delle finalità socio-educative della scuola. E per dire qualcosa anche su questo tema, cominciamo subito a dedurre, dalla centralità dell’insegnamento delle “materie”, due fondamentali valori educativi della scuola. La scuola, grazie all’insegnamento delle “materie”, fornisce i filtri culturali per dipanare l’immensa massa di “informazioni” alle quali i giovani, come tutti, sono esposti. Inoltre insegna il valore del duro lavoro dello studio. Per quanto riguarda il primo punto, è evidente che oggi non si tratta di offrire ai giovani stimoli e informazioni: il nostro mondo è un mondo di persone iperstimolate sul piano mediatico e spettacolare e rimpinzate di informazioni. Un mondo di esposizione continua alla televisione, a cui si aggiunge lo spazio immenso di internet. In questa situazione il punto cruciale, ciò che distingue gli individui attivi dai recettori passivi e manipolati, è la capacità di filtrare le informazioni, di selezionare, di rifiutarsi alla bulimia informativa e di scegliere le informazioni importanti e significative. Ma è appunto la lezione di organizzazione concettuale fornita da uno studio serio e approfondito di materie come la lingua italiana, la storia, una disciplina scientifica, a fornire questa capacità di selezione critica delle informazioni. Allo stesso modo, il fatto di capire che solo attraverso un duro e serio lavoro di studio si può arrivare a risultati di questo tipo, o a qualsiasi tipo di risultato, è un altro fondamentale valore educativo dell’insegnamento disciplinare.
Queste osservazioni rappresentano però solo il punto di partenza. Il passaggio successivo è la riacquisizione da parte dei docenti dell’autorevolezza perduta. Il docente deve tornare ad essere una figura che ha autorità e stima sociale, e ce l’ha appunto in quanto è colui o colei che insegna quelle particolari materie. Questo è naturalmente il passaggio più difficile. Come dicevamo sopra, l’annientamento della scuola italiana è un fatto storico di vasta portata, possibile solo grazie al fatto che la negazione della cultura e del pensiero sono diventati senso comune. E’ dunque difficile riacquistare stima sociale in una società che nega stima proprio alla cultura e al pensiero, e quindi alla scuola e a chi ci lavora. Ma questa difficoltà, già grave di per sé, diventa insormontabile se i docenti introiettano la mancanza di stima che sentono nell’intero ambiente sociale. Vale a dire che il primo passo i docenti devono farlo su di sé. Il primo passo per combattere il degrado della scuola e dei docenti è la riconquista dell’autostima da parte dei docenti stessi. E poiché il docente, come s’è detto, è colui o colei che insegna quelle ”materie”, occorre che i docenti siano, essi per primi, convinti della centralità e dell’importanza di quello che fanno, vale a dire di quello che insegnano. Occorre che i docenti siano, essi per primi, convinti che insegnare Dante e Galileo, Platone e Manzoni, Newton e Petrarca sia un compito fondamentale e centrale; che un mondo in cui la gente impara a scuola la tradizione culturale cui quei nomi, e gli altri simili, fanno riferimento, è un mondo migliore di quello in cui questo non succede. Che insegnare Leopardi e Shakespeare significa offrire ai ragazzi una opportunità inestimabile: l’opportunità di costruirsi un’identità personale un po’ più sensata, un po’ più umana di quella che avrebbero senza Leopardi o Shakespeare. Ma non basta che i docenti credano questo. Devono saperlo. E sapere è più di credere. Il docente sa che quanto abbiamo appena detto è vero solo se ne ha provato su se stesso la verità. Vale a dire, solo se ha nel proprio vissuto la gioia, l’emozione, la soddisfazione profonda di capire un teorema o una poesia, di comprendere realmente una dinamica storica o una cultura diversa dalla propria. In definitiva, i docenti possono recuperare stima e autorevolezza solo se tornano ad essere intellettuali veri, che credono nel valore della cultura che trasmettono perché quel valore lo conoscono per esperienza personale e pratica quotidiana. E’ chiaro che su questo punto ci deve essere una profonda autocritica dei docenti italiani. Essi per troppi anni hanno accettato un patto scellerato che consisteva nello scambio fra bassi salari e scarso impegno personale, anche sul piano culturale. Questo deve finire. Non che si possa pretendere dall’oggi al domani un radicale cambiamento delle persone. Ma si può e si deve pretendere un radicale cambiamento dei valori. Deve essere chiaro che la scuola italiana può essere ricostruita dalla macerie, e il degrado dei docenti può essere arrestato, solo se si assume come norma di cosa sia un docente il modello che abbiamo descritto. Solo con questa radicale assunzione di responsabilità, con questa severa autocritica e con questa scelta di un modello normativo di rigore culturale, i docenti italiani potranno finamente risollevare la testa.
III. Su la testa!
A partire da quanto fin qui detto si può provare a rispondere a molte affermazioni superficiali e scorrette sulla scuola, da tempo depositate nel senso comune.
Dice il senso comune: la scuola trasmette contenuti vecchi, il mondo è cambiato, occorre praticare attività nuove, come computer, multimedialità, viaggi di istruzione.
No. Tutte queste cose fanno parte della realtà nella quale i ragazzi sono immersi indipendentemente dalla scuola. Sono cose che essi fanno in ogni caso. A spippolare sul computer imparano comunque, in un modo o nell’altro, i viaggi li fanno con i loro genitori o con gli amici, in internet ci vanno comunque.
Il compito della scuola non è far fare queste cose, ma fornire gli strumenti concettuali con i quali capire quello che si fa e quello che succede nel mondo. La comprensione delle dinamiche storiche e culturali con le quali si è arrivati ai fatti di cui parlano i telegiornali è cosa che può dare solo la scuola, e senza la quale è inutile seguire i telegiornali. Leggere Tucidide e Machiavelli, studiare la storia della rivoluzione industriale o del Medio Oriente aiuta a capire la realtà contemporanea più di ore passate in internet.
Allo stesso modo, le classiche “gite scolastiche” sono ormai diventate una pura perdita di tempo e vanno abolite appena possibile.
Dice il senso comune: la scuola deve preparare al mercato del lavoro; data la difficoltà odierna del mercato del lavoro, è questo uno dei suoi compiti principali.
No. Quello della disoccupazione giovanile (e non solo) è un problema drammatico. Appunto per questo deve essere affrontato da chi ha gli strumenti per affrontarlo, cioè il mondo della politica, e sul piano che gli è proprio, cioè quello dell’organizzazione sociale dell’economia. Scaricare tale problema sulla scuola rappresenta una truffa. La scuola non ha la possibilità di risolvere il problema della disoccupazione giovanile. Se si porta un giovane da un medico perché è ammalato e il medico lo restituisce sano, il medico ha svolto il suo compito, non gli si chiede anche di trovare un posto di lavoro al giovane. La scuola, se funziona, fornisce alla società giovani educati al pensiero, alla cultura, al ragionamento. E’ questo il suo contributo al progresso civile.
Dice il senso comune: i ragazzi vanno stimolati, per esempio portandoli a mostre e dibattiti, fiere del libro e festival della scienza, invitando persone esterne alla scuola a fare conferenze.
No. Come dicevamo sopra, oggi la condizione normale delle persone è quella di una iperstimolazione mediatica, continua e incessante. La scuola non deve contribuire a questa bulimia, ma deve fornire filtri culturali. Inoltre, occorre rendersi conto che la cultura delle fiere del libro, dei festival della scienza e delle pagine culturali dei giornali, è una cultura della chiacchiera pretenziosa, della superficialità, della moda cultural-spettacolare priva di spessore. E’ una cultura diametralmente opposta alla cultura dello studio e del pensiero che la scuola deve trasmettere. La scuola, lungi dal portare gli studenti a queste iniziative, deve insegnare loro a non andarci, o ad andarci il meno possibile. Deve far loro capire che leggere un buon libro è sempre la cosa migliore da fare, se si tiene alla cultura.
Quanto agli esperti invitati a tenere conferenze nella scuola, se sono persone serie e non chiacchieroni alla moda possono essere utili. Ma queste iniziative, se svolte nell’orario curriculare, rappresentano in ogni caso una perdita di tempo prezioso, rispetto al compito principale della scuola, che è di stare in classe a insegnare e imparare, e vanno quindi ridotte al minimo.
Dice il senso comune: in un mondo multietnico la scuola deve aprirsi alle altre culture e diventare una scuola multiculturale.
No. Quello del rapporto con altre culture e dell’integrazione sociale, economica e culturale delle varie etnie presenti nel nostro paese rappresenta un problema serio e importante, che viene impropriamente e truffaldinamente accollato alla scuola. Chiunque sappia cosa vuol dire educare un giovane a comprendere i valori profondi della nostra tradizione culturale sa che si tratta di un’impresa che richiede tempo, impegno, serietà. Non c’è spazio, nel tempo della scuola, per fare un lavoro di altrettanto impegno nei confronti di un’altra cultura. E quale poi? Dato che nel nostro paese convivono le più diverse etnie, quali altre culture dovrebbero entrare nella scuola italiana? La tradizione culturale araba, quella cinese, quella del cristianesimo ortodosso, quella iberica e latino-americana, le varie culture africane? Chiunque abbia un’idea minimamente seria di cosa significhino queste tradizioni, sa che è assurdo pensare ad una scuola nella quale si parla un pochino di Cina e un pochino di Maometto, un pochino di Africa e un pochino di Tolstoi. Niente potrebbe essere fatto con serietà, con profondità, in una simile scuola. Ma chi fa simili proposte non ha la minima idea di cosa siano serietà e profondità, di cosa siano cultura e pensiero, e immagina la scuola come un supermarket con gli appositi scaffali per le spezie esotiche. Del resto, basta pensare nei termini della vita quotidiana per capire l’assurdità di queste proposte. Se viene ospite a casa tua un amico cinese, gli prepari forse una cena di cucina cinese? Ovviamente no, gli prepari una cena di cucina italiana cercando di tirare fuori il meglio che sei capace di fare. Rifiutando l’idea della scuola multiculturale, che è la scuola non delle molte culture ma della negazione di ogni idea di cultura, noi ci regoliamo secondo le leggi universali dell’ospitalità, offrendo in dono a coloro che sono arrivati da lontano ciò che di più bello abbiamo, ciò che ci è più caro: Dante e Leopardi, Platone e Galileo, e così via. Ed è questo l’unico modo in cui la scuola può lavorare per la pacifica convivenza fra le culture. Sforzandosi di far vivere agli studenti una esperienza culturale seria e vera, quella dell’incontro con la nostra tradizione, insegnamo contemporaneamente il rispetto per la cultura universale. Solo chi ha vissuto l’emozione di un incontro culturale profondo e autentico, sia esso con Euclide o con Ariosto, con Pascal o con Maxwell, è in grado di intuire lo spessore umano di un’altra tradizione culturale, e quindi di rispettare realmente Confucio e Maometto. Chi riduce la cultura a chiacchiericcio generico su tutto e tutti, non rispetta in realtà nessuna tradizione culturale.
Dice il senso comune: la scuola deve cambiare perché ci sono molti cattivi professori che allontanano gli studenti dalle loro materie. Ci sono tanti casi di persone che hanno avuto un cattivo docente di matematica (filosofia letteratura italiana ecc) e quindi sono sempre rimaste lontane dalla matematica (dalla filosofia dalla letteratura italiana ecc).
No. E’ ovvio che cattivi docenti ce ne sono sempre stati e sempre ce ne saranno. Così come ci sono sempre stati e sempre ci saranno cattivi medici, cattivi avvocati, cattivi cuochi. Ma non per questo la scuola deve cambiare la sua natura profonda, che è quella, ripetiamolo un’altra volta, di educare attraverso l’insegnamento disciplinare. Il problema dei cattivi insegnanti va affrontato rendendo razionale, come non è da tempo, il sistema del reclutamento. Altrimenti lo stesso ragionamento porterebbe a dire che, poiché negli ospedali italiani ci sono anche cattivi medici, allora gli ospedali non devono più preoccuparsi di curare i malati. Oppure a dire che, poiché nei tribunali italiani ci sono anche cattivi magistrati, allora la magistratura non deve più preoccuparsi di applicare le leggi.
IV Lotta dura.
Ma la ripresa di prestigio e autorevolezza del corpo docente deve passare attraverso un deciso aumento degli stipendi. Non è possibile svolgere seriamente un lavoro intellettuale se si è costantemente con l’acqua alla gola sul piano della vita materiale. Ed è esattamente quello che succede con le attuali retribuzioni. La richiesta minimale deve essere quella di raddoppiare gli stipendi dell’intero corpo docente. Questo deciso innalzamento del livello economico deve essere sganciato da ogni considerazione di produttività o di competitività, categorie che non hanno nulla a che fare col lavoro intellettuale ed educativo della scuola. Il lavoro del docente non può essere misurato in termini quantitativi, e la nozione di produttività non può essere ad esso applicata. Quanto alla competitività, il docente non deve competere con nessuno, anzi, deve mettere il più possibile in comune con i colleghi il proprio sapere.
Ma dove trovare le risorse per questi aumenti? Occorre, evidentemente, rinunciare ad altre cose. In una situazione di debolezza economica come quella italiana, occorre capire che ci sono lussi che non ci possiamo più permettere. La scuola non è un lusso. Ma la stragrande maggioranza delle iniziative di “spettacolo culturale” le cui pubblicità ci bombardano sono lussi: festival e mostre, happenings e dibattiti. E non si tratta solo del fatto che costano. Se riflettiamo sul fatto che oggi appare dominante questa cultura ridotta a spettacolo, a chiacchiera superficiale, a “star system” culturale, e su come tale cultura-spettacolo si opponga diametralmente alla cultura del libro, della riflessione e del pensiero, di cui è depositaria la scuola, arriviamo ad una conclusione necessaria: i docenti hanno tutto l’interesse a chiedere l’abolizione di mostre e spettacoli, fiere del libro e festival della scienza. Per formulare una proposta concreta, i docenti dovrebbero chiedere la soppressione degli assessorati alla cultura di comuni, province e regioni, la fine di ogni contributo finanziario pubblico alla cultura-spettacolo, e il versamento dei soldi così risparmiati sui loro stipendi. Meno chiacchiere futili, meno spettacolo, più serietà, più stipendi per gli insegnanti. Tutti vantaggi, nessuno svantaggio, costo zero per lo Stato.
Infine, i docenti delle scuole dovrebbero lottare duramente per chiedere l’abolizione di pedagogia e didattica dalle università italiane. Pedagogisti e didatti sono i principali ispiratori della riforma Berlinguer-Moratti. Si tratta di signori che, pagati il doppio o il triplo di un docente di scuola, invece di starsene nel loro cantuccio a raccontarsi le loro sciocchezzuole, hanno pensato bene di invadere la scuola italiana e la vita di chi ci lavora. L’esito di questa invasione è talmente devastante da imporre una reazione radicale. Siamo però così convinti del grande valore di civiltà del “posto fisso” che non chiediamo il licenziamento neppure di pedagogisti e didatti. Per abolire pedagogia e didattica basta semplicemente che ad ogni pensionamento di un professore o ricercatore universitari di una di queste materie, il suo stipendio venga riassorbito dall’Università e destinato ad altre discipline.
La lotta contro il degrado della scuola non sarà facile. E’ solo avendo le idee chiare sulla situazione attuale e sulle sue cause che tale lotta potrà iniziare. La nostra speranza è che questo intervento possa almeno contribuire a fare chiarezza.
Marino Badiale
Docente di Analisi Matematica
Università di Torino.
Di prossima pubblicazione sulla rivista “Eretica”.
troppo facile accusare gli insegnanti di tutto il male. se provo a dirlo a qualche genitore mi rispondono che non capisco niente perche’ non ho figli. ma io penso che il processo andrebbe fatto ai genitori che quando vanno in pizzeria lasciano che il pargolo si arrampichi felicemente sul battiscopa
Mi ricordo di un post di un po’ di tempo fa in cui si diceva dei ragazzi delle superiori che credono che l’Ecuador stia in Spagna. Sicché parlerei pure del degrado culturale e sociale (con conseguente impossibilità di andare a fare un lavoro normale da grandi) dell’intera categoria degli studenti italiani.
Perché se l’Ecuador sta in Spagna e se su un aereo Milano-San Pietroburgo il comandante annuncia “stiamo sorvolando il mare del Nord” e nessuno si chiede che cazzo di giro stiamo facendo per andare in Russia… vuol dire che al massimo puoi andare a zappare l’orto dietro casa, ché se vai più in là perdi la strada.
Prof! nella scuola dove siamo passate tutte e due c’erano i prof. delle materie scientifiche che non se la prendevano neanche più quando, in terza o quarta superiore, c’era qualcuno che stava alla lavagna un quarto d’ora per pensare a quanto fa 2×2:2, ché tanto, dice, “siamo in un liceo linguistico”… sì, alla scuola dei ciuchi eravamo!
Io son stufa di essere presa per scema, però va a finire che ti ci devi rassegnare. Perché all’università poi la solfa è la stessa del liceo. Devi fare certi esami, che dal nome paiono mazzate, da studiare un anno solo per quelli. Poi però tutto consiste in quattro balle da imparare a memoria, ché sennò si sfora con i crediti.
Bella vaccata, ‘sta riforma.
Ci sono molti argomenti importanti e condivisibili. Qualche rapida osservazione da parte di un: (1) padre di maturando (2) docente universitario che si becca i maturati.
multiculturalità. Attenzione. E’ vero che l’aria fritta dei pedagogisti -con rispetto parlando- ha contribuito a screditare le spinte a cambiare i programmi in tal senso, ma per quanto siano importanti “Dante e Leopardi, Platone e Galileo” non possiamo continuare a tenerci Giovanni Gentile cosi’ com’è. Un tempo, grazie a GG, si terminava con la lingua straniera a 15 anni. I Soloni di allora argomentavano “tanto le lingue servono ai portieri d’albergo”, o, nei casi più illuminati “A parlare inglese o francese imparano comunque, in un modo o nell’altro, nei viaggi che fanno con i loro genitori o con gli amici, le lingue le imparano comunque”. (quest’ultimo argomento parafrasa le osservazioni un tantino vetero-quelcheè su Internet, riportate quanto sopra). E no. Perché gli studenti stimolati dai libri e da parenti illuminati bene o male se la caveranno, quelli vissuti in un ambiente meno aperto, privo di mezzi oppure agiato ma refrattario alla cultura no (per non dir degli stranieri).
Insegnanti buoni/cattivi, d’accordo. Ma se il programma non cambia, anche l’insegnante buono puo’ far ben poco. Nei classici/scientifici continueremo a leggere Cartesio e Pascal senza conoscere almeno la data della Pace di Westfalia? Continueremo a imporre il latino con gli uccellini di Catullo (tanto “moderno”, si sa) e il carpediem di Orazio? Perché questo è il trend, Badiale. Trent’anni fa, con questo sistema, ogni tanto veniva fuori qualche “bravino” più o meno eccellente. I post-bravini d’oggidi’ non mancano, ma in quanto a basi… E poi, perché il diritto si insegna solo ai tecnici? Se non giurate che sull’Occidente, perché rimuovere e relegare tra le discipline “banausiche” uno dei pilastri del mondo occidentale? Perché la religione si insegna come un catechismo, anziché affidarla a un prof come gli altri?
Degrado. La tendenza è europea. I problemi ci sono ovunque, ognuno li risolve diversamente. Ma se docenti e ricercatori non fanno qualcosa per giustificare l’utilità delle loro “cosette”, i politici non faranno un bel niente.
I programmi devono cambiare. Ma per cambiarli ci vuole elasticità. E anche tolleranza. Anche a noi Umberto Eco dice poco. Ma sono gli umbertiechi a smuovere un po’ le acqu, e non i discorsi da bar “meno spettacolo, più serietà” o gli slogan “non moriremo pedagogisti”.
pero’ Lia potresti anche degnarti di venirmi a trovare, ogni tanto ;-)
oppure lo hai fatto e hai trovato il mio blog del tutto ininteressante ? :-(
Abbi pietà di me, CloseTheDoor: non ho ancora la linea telefonica a casa e mi collego dagli internet cafè.
Cioè, dico: faccio battaglie divorzili islamiche e aggiorno il blog dagli internet cafè. Nun zo se mi spiego.
Non vado più da nessuna parte, insomma, mica solo sul tuo blog…
Congratulazioni per il convegno, comunque. :)
Stavolta sto con gli ippopotami, che poi sarebbero i ragazzi, specialmente quelli delle “superiori”. Ne conosco quattro o cinque che la mattina prendono il bus alla mia stessa ora, perchè amano “fare salotto” sia all’interno del mezzo (però salotto per davvero, perchè giocano a carte o con le suonerie dei cellulari o gli mms, etc… mica ripassano ‘sti somaroni di zia!) sia poi davanti alla scuola fino a che non apre i cancelli… ma qualche volta, se mi inserisco io, si parla anche di scuola e di come la vorrebbero… o NON la vorrebbero. Di sicuro mi dicono che vorrebbero evitare di restare su Dante Alighieri per tutto l’anno scolastico quando il programma lo contempla, e che magari piacerebbe loro parlare di argomenti un filino più contemporanei, e sinceramente non so dar loro torto, anche perchè ricordo ancora i miei anni scolastici china sempre sulle stesse cose, e quando si arrivava alle ultime battutte del programma di storia del quinto anno…. a malapena che si riusciva a finire la seconda guerra mondiale e citare a malapena Kennady Martin Luter King e Papa Giovanni…. e se penso che da allora abbiamo avuto altri 4 papi mi vengono i brividi, perchè sono sicura che ancora adesso si arriva amenzionare appena appena le stesse cose che menzionavamo noi…! Il diritto? Ma state scherzando? Poi ci crescono troppo preparati! Manco la Costituzione sanno cos’è!… vabbè che se lo chiedi ad un parlamentare di ultima generazione!….
Questa lettera unisce molte cose che condivido ad altre che non condivido neanche un po’.
Purtroppo la mia reazione a pelle è: “Ecco un altro 50enne che invecchia prendendosela con Berlinguer”.
Nella mia vita ne ho sentiti parecchi: loro sanno insegnare, sono sicuri di sapere cosa devono insegnare e cosa non serve, la principale risorsa della scuola sono loro, se qualcuno suggerisce che il tempo sta cambiando non ha capito niente, qualunque riflessione si infrange sulla semplice evidenza che nulla è meglio delle discipline curricolari che loro sanno insegnare.
Prima obiezione: non ci siete solo voi; c’è anche un sacco di gente che quelle discipline non le sa insegnare. Seconda: anche voi, comunque, invecchierete e andrete in pensione, per cui sì, magari siete una risorsa, ma non riproducibile; terza: ma davvero la scuola trent’anni fa era perfetta e poi il cattivone Berlinguer ha cambiato tutto? ce la beviamo? siete sicurissimi di essere quegli insegnanti perfetti che ritenete di essere? Quando Berlinguer propose un test, scatenaste la più grande protesta professionale del dopoguerra: come mai?
Che la scuola faccia schifo, è un fatto; che sia colpa di Berlinguer e Moratti, è uno schema: molte cose concepite da loro o da De Mauro non sono mai state applicate, quindi di che parliamo? Chi ha fatto i veri danni, volendo, sono stati i tesorieri, Tremonti & co., che hanno chiuso i cordoni della borsa.
Badiale propone di eliminare pedagogia e didattica dalle facoltà italiane. Dando per scontato che molti pedagogi e didatticologi siano ciarlatani, si comprende la portata di un’affermazione del genere? In Italia la giustizia va a rilento: perché non chiudiamo tutte le facoltà di legge?
Dietro la nullezza di molti insegnanti italiani (anche entusiasti, ma totalmente privi di capacità di insegnare) ci sta il fatto che pedagogia e didattica, nelle università italiane, sono già da adesso materie opzionali e ignorate. Ci si abilita all’insegnamento della scuola media senza avere la minima nozione di quanto un undicenne è in grado di recepire durante la lezione. L’undicenne, di conseguenza, non capirà nulla del suo preparatissimo docente, si annoierà, tirerà gli aeroplanini di carta, e il docente se la prenderà con la Moratti. O con Berlinguer. Che per inciso, non regge più quel dicastero da otto anni: la finiamo coi sassolini nelle scarpe?
Un sorriso solidale cara Lia :-)
Lia, per la prima – e mi sa ultima – volta sono daccordo con cio’ che posti. Ma daccordo al 100%.
BASTA! HO DECISO! TI LINKO! E se divorzi dimmelo che ti sposo io anche subito!
Gentile Lia,
io sono stato insegnante delle superiori in Italia, a Genova per 13 anni, adesso lo sono in Spagna. La “Lettera aperta” di Badiale è genericamente condivisible nell’analisi ma mi pare insulsa nelle proposte. L’abolizione dell’insegnamento e la trasformazione della scuola in un luogo di intrattenimento è un processo europeo e coincide con il processo di cambiamento che amalgama tutte le società di questo continente: la vecchia riforma Allègre in Francia e la distruttiva legislazione zapateriana in Spagna non sono meno letali della coppia Berlinguer Moratti, glielo posso assicurare.
Che gli insegnanti italiani, poi, possano essere la forza che si propone di rovesciare un processo sociale e culturale come quello che coinvolge e sfigura la trasmissione della cultura, è un’idea veramente buffa.
Gli insegnanti italiani sono nella stragrande maggioranza l’ipostasi del parassitismo pezzente. I loro salari rappresentano matematicamente il loro valore di mercato; ovvero quanto la societá è disposta a cedere loro della rendita complessiva. I processi di selezione della classe insegnante sono sempre stati, in Italia, clientelari e questa professione è sempre stata scelta come part-time o prebenda da mamme, mogli di odontotecnici e geometri con studio privato sulla circonvallazione. Non da sacerdoti dello spirito e della cultura!
La cultura e la formazione come le abbiamo vissute e conosciute noi sono al tramonto, probabilmente anche l’umanesimo europeo è al tramonto, sono tante le civiltá, le forme e gli stili che sono tramontati, peró il tramonto può essere dignitoso e non querulo, lamentoso e superficiale come il contenuto della lettera di Badiale
con stima
genseki
Lesandro, lusingatissima. :)
(Qui adoriamo sposarci.)
Tre parole per l’unica riforma della scuola concreta e decisiva:
ricominciate a bocciare
ciao. credo che sulla scuola si tenda a scaricare molte responsabilità che non le competono. ma la scuola non reagisce. alle manifestazioni studentesche tutti ci hanno fatto l’abitudine, e nessuno le ha mai cagate di striscio. non mi ricordo risultati tangibili di occupazioni e autogestioni negli ultimi dieci anni. stare su Dante, se poi si vuole andare a sentire Benigni, e capirlo, è importante. credo che siano i metodi di insegnamento, ad essere inadeguati a questo tempo. non lo faccio un problema di materie. tra insegnanti e studenti c’è un gap molto grande, più grande, a parità di età, con quello che ci poteva essere trenta anni fa. molti insegnanti si sono adagiati sulla loro materia, ma se non si guarda un po’ fuori, allora diventa inutile, si diventa incapaci di allacciarsi al mondo. che continua a girare. Cambise rimane il nonno di Dario, e lo zio di Epaminonda, ora come nel ’50, ma dal ’50 sono cambiate un’infinità di cose. studenti e insegnanti si parlano (quando lo fanno) proprio da mondi diversi. insegnare è uno dei mestieri più difficili che ci siano, una vera vocazione. come per i preti e le suore. e non tutte le persone che lo fanno, ce l’hanno. la differenza tra chi ha la vocazione e chi no è palese. Detto questo, un giorno capiterò a Genova pur io, non ne sento che parlar bene!!!! (e sono tifoso doriano…) ciao!-)
Questa riforma ha come conseguenza la dequalificazione del lavoro del docente e la degradazione culturale e sociale (con conseguente impossibilità di miglioramento economico) dell’intera categoria dei docenti della scuola italiana.
Ricordo, e purtroppo non possedendo più il libro devo citare a memoria, che Gaetano Salvemini nel 1919 o giù di lì scriveva della grave anomalia di una scuola ridotta a sfogo lavorativo a basso costo per i figli laureati della piccola borghesia meridionale che non avrebbero fatto altrimenti carriera in una professione liberale; ho sentito ancor oggi giovani insegnanti chiamare il proprio lavoro la “tessera del pane”. Questa finalizzazione della nostra scuola a dar lavoro a potenziali disoccupati intellettuali non è mai cambiata del tutto anche se nell’avvicendarsi dei governi e negli alti e bassi dell’economia ha avuto maggiore o minore rilievo. Temo quindi che, essendo da assai tempo radicata una visione tanto riduttiva della funzione insegnante, il problema della riqualificazione della professione non possa ridursi ad abolire o meno una cattiva legge, magari fosse così. Come convincere infatti tanti docenti che non è vero che l’insegnamento sia un ripiego per rifiutati dal mondo del lavoro, una sinecura retribuita per signore, una garanzia economica per liberi professionisti in via di assestamento, un luogo di passaggio per giovani rampanti privi di padrini e alla ricerca di una “via d’uscita”. Come farlo in maniera credibile se uno dei pochi premi professionali dell’insegnante considerato bravo è di allontanarlo dall’insegnamento? Il mitico “distacco” in alcuni periodi ha gratificato quasi il 10% del personale, si fa per dire, insegnante. Furbesca gestione del personale che permette di dichiarare un rapporto insegnanti/alunni fra i più alti d’Europa e giustificare così la retribuzione degli insegnanti fra le più basse d’Europa. Permette anche di avere a disposizione una duttile schiera di “privilegiati” disposti a lavorare in compiti essenziali per un moderno sistema scolastico senza però godere di ruoli definiti né di qualifiche riconosciute, tutto pur di rimanere degli insegnanti senza insegnamento. Sono dunque gli insegnanti una categoria intera di biechi disaffezionati al lavoro? O non è piuttosto quello dell’insegnante un lavoro troppo ignorato per potersi affezionare ad esso tranne che nei casi eccezionali delle maestrine dalle penne rosse che ce l’hanno nel DNA? Già, ma come è fatto l’insegnante bravo? Da molte parti si fa il tiro al piccione – insegnante che non sa questo e quello e non sa fare quell’altro e quel terzo: sono spesso queste dichiarate carenze cose piuttosto peregrine e difficilmente si capirebbe il danno che possono produrre alla didattica. Molte volte si tratta di maldestri tentativi di qualche esperto per rendersi utile al fine di porre rimedio ai molteplici e gravi segni di malessere se non di dissesto delle nostre scuole. Non sempre però sono tentativi disinteressati, specie ora che non mancano più tanto come in passato i quattrini per il sostegno della grande malata. E come biasimare allora chi, per sapere più o meno come vanno le cose a scuola per averla frequentata per dodici tredici anni, avendone l’occasione quale animatore di mostre, musei, agenzie e quant’altro si improvvisa formatore degli insegnanti, i quali si sa sono condannati a farsi formare a vita. Non sarebbe nemmeno sbagliato se si trattasse di condurre uno studio serio e sensato e non, troppo spesso, di colorate inutili biascicature di ovvietà risapute, naturalmente al fatidico power point. Se non esistono standard del bravo insegnante ancor meno esistono per il formatore degli insegnanti e così lodi sperticate e critiche assassine si possono distribuire, come si fa, a man salva, sempre senza tema di smentite: in base a che cosa? Come è possibile che ciò avvenga e sia accettato? Per fame! Fame legittima di una retribuzione decente, ma anche fame di visibilità; e progetti e corsi spesso sono retribuiti e sempre sono ben più visibili dell’invisibile lavoro dell’insegnamento. Così l’insegnante lascia senza rimpianto l’emozionante compito di mediare la costruzione di nuova conoscenza e si improvvisa segretario di convegni, curatore di mostre, promotore turistico trascinando i propri allievi in scombinate indigestioni di informazione coatta.Allora che fare? Chiuderli in classe con le mani sul banco a prendere appunti? Perché no, anche questo, e condurre indagini, e progettare ricerche, e approfondire un argomento, e studiare in gruppo, e scrivere e raccontare gli uni agli altri quello che hanno appreso e capito e fare delle uscite perché se ne sente motivato bisogno e chiamare un esperto perché effettivamente ci serve: insomma studiare e imparare come si studia e ciascuno che cerca di capire di cosa ha bisogno per studiare, e cosa e come vuole studiare. E l’insegnante che spiega, ascolta, guida, sollecita, propone e fa tutto quello che è il suo mestiere e magari trova gratificazione perché lo fa. Fatelo e vedrete che l’insegnamento non è il lavoricchio part time che vi fanno credere e vi lasciano fare giusto per pagarvi la metà e per non modificare l’edilizia scolastica mirata ad una struttura a classi che non rispetta le legittime esigenze di elettivi interessi culturali dei giovani. Ma questo sarebbe ancora un altro, più lungo, discorso.