basura

L’ultima volta che venne sepolta dalla spazzatura, la mia città, scrissi un post incavolato e addolorato che provocò offesa e malumore in un po’ di miei concittadini. “Vedete un po’ voi”, pensai io, e di Napoli non ho parlato più.

Da Napoli se ne andò mio nonno, prima che la mia nascita fosse anche solo prevista, e se ne andò perché non sopportava la corruzione, né le condizioni in cui era costretto a lavorare. Primario di ospedale e professore a Medicina, caricò la famiglia in un transatlantico e si trasferì in Canada dopo avere visto, nella sala d’attesa dell’ambasciata dove era andato a raccogliere informazioni, un poster che raffigurava delle rose. “Se nonostante il freddo fioriscono le rose, in Canada, posso fiorirci anche io”, disse. Dovette tornare a laurearsi, per potere fiorire, ché i canadesi ci si soffiavano il naso, con le nostre lauree. Quel che si dice ricominciare da zero.

Quella romantica di mia madre si mise in sciopero della fame, pianse, urlò, fece danni e, infine, se ne tornò sotto al Vesuvio abbandonando in quel di Toronto i genitori, i fratelli e le rose. E poi nacqui io, napoletana per testardaggine materna.

Tanta fatica per niente, tutto sommato: cinquanta anni dopo, anche io non sopporto la corruzione della mia città e non ci potrei lavorare. Me ne sto lontana, esattamente come fece mio nonno, e con me si estingue il ramo napoletano della famiglia, ché mia figlia a stento la conosce, la città, e altri ragazzi non ce ne sono. Addio, come si suol dire, e buona fortuna.

Solo che l’identità è una brutta bestia e tu lo puoi stracciare quanto vuoi, un passaporto o un certificato di residenza, e dichiararti apolide, chiedere asilo in qualsiasi altra città del mondo, sovrapporre mille accenti a quello con cui hai imparato a parlare e mille cibi a quelli che hai mangiato da piccola, ma non c’è niente da fare. E’ la tua città, ti riguarda, è il metro con cui misuri la bellezza del mondo e, contemporaneamente, il fardello che ti porti a spasso e che ti fa vergognare come poche altre città del mondo fanno vergognare i propri figli, e troppo spesso per una vita sola.

“Pare che persino da voi si usino le vaccinazioni, ma trovo più prudente che usiate il vaccino che vi spedisco io”. Mio nonno aveva un senso dell’ironia abbastanza perfido e non se lo fece mancare, quando ci spedì dal Canada il vaccino contro il colera per tutta la famiglia. Andarono a prenderlo a Fiumicino, credo venisse in un contenitore col ghiaccio, e ci facemmo il vaccino speciale. Come se fosse stato sporco, quello di Napoli. Sì, ma con quale faccia gli rispondevi che, no, il vaccino napoletano era perfetto? Zitto e incassa, cosa puoi mai rispondere. In mezzo a un’epidemia di colera.

Mi è tornato in mente quell’antico imbarazzo della mia infanzia, vedendo a tutta pagina su El Pais il nome della mia città associato a una situazione sanitaria come non ne esistono nei paesi del Terzo Mondo. Ho pensato a tutti quelli che, in Spagna, associano Napoli a me. Alle mie ex cognate, tipo, e l’impotente imbarazzo che ho sentito lo conoscevo già, è sempre lo stesso.

Le mie competitive quattro ex cognate della Spagna profonda, tutte e quattro che si chiamavano María: María Amalia, María de las Mercedes, María de los Ángeles e María de las Nieves. Prova ad avercele tu, quattro cognate così, e cattoliche e di destra. Il tasso di acidità che riescono a emettere ti rimane stampato addosso per la vita, e riesci a pensare a loro anche dopo 15 anni che non le vedi, mentre arrossisci vedendo il nome della tua città sparato così sul maggiore quotidiano spagnolo, a caratteri cubitali, a svettare sull’immondizia. “Che figura”, pensi. Perché, certo, non esiste nessuna città in Spagna che sia comparabile a Napoli, quanto a bellezza e a forza, a capacità evocativa. A tossicità, forse, ché non sono sani i sentimenti che la mia città ispira. Ma non esistono nemmeno città capaci di dare un simile spettacolo di sé, né in Spagna né in nessun altro luogo che io conosca. E’ come essere figlie di un ubriacone, essere napoletane. Il disagio è lo stesso.

Possono spiegarmelo fino a domani, il perché e il per come di ciò che sta accadendo a Napoli, ma è inutile. Non mi possono convincere, non esiste giustificazione, non esiste attenuante: è una città, non è altro. E una media città europea deve, ma proprio deve, essere in grado di gestire la propria immondizia. Che la chiudano, altrimenti. Che la bombardino. Che la dichiarino incapace di badare a se stessa, che la facciano interdire. Rinchiudetela da qualche parte, come si fa coi pazzi, e buttate la chiave.

Bagdad aveva più dignità e l’abbiamo distrutta, e non mi pare che il mondo si stia strappando i capelli sulle sue rovine. Be’: se invece di andare in giro a esportare la democrazia, andassimo a Napoli a esportare la capacità di buttare il pattume, io non avrei nulla da obiettare. Nemmeno se lo si facesse coi cacciabombardieri. Anzi.

C’è di buono che gli spagnoli, che hanno ben funzionante il senso della realtà, sono perfettamente consapevoli del fatto che Napoli è semplicemente una città e non una stranezza antropologica, e per giunta è una città italiana. E la spalmano per bene lungo tutta la penisola, la vergogna, attribuendola all’ Italia tutta, come e giusto, sano e ragionevole che sia:

Ayer, el comisario comunitario de Medio Ambiente, Stavros Dimas, aseguró que la Unión Europea está siguiendo de cerca la situación en la región y que no se descarta la adopción de medidas para que Italia cumpla su compromiso de crear nuevas centrales de descarga. Dimas recordó que el Ejecutivo europeo abrió, en junio pasado, un procedimiento de infracción contra Italia, culpable de no haber seguido las indicaciones comunitarias en materia de eliminación de basura. Italia corre el riesgo ahora de pagar altas multas y de perder financiaciones de la UE.

Nasce dalla sporcizia interiore di un paese che, con la mafia e la camorra e le piccole e grandi mafie e camorre ci è sempre sceso a patti, quello che succede a Napoli. Ed è come guardarsi attraverso uno specchio deformante, guardare Napoli: è caricaturale, forzata, esagerata e distorta, l’immagine che vedi, ma è comunque la nostra immagine. Noi, portati alle estreme conseguenze di ciò che siamo.