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Quando ero un’adolescente terribile – ma terribile sul serio, mica per modo di dire – mio padre mi disse, tra il furibondo e il conoscitore di femmine: “Tu, è inutile che posi a nichilista, a gioventù bruciata e a ‘ste stronzate. Non mi fai fesso e non mi preoccupi, ché non conosco nessuno desideroso di vivere quanto te. Basta portarti al ristorante, per vederlo: è tutta la vita che ti osservo mentre guardi il menù e ti scervelli e te lo guardi per ore perché, in realtà, vorresti tutto.”

Io sono una tipa felice, di fondo. Credevo di avere smesso di esserlo, tornando in Italia e con tutti i disastri successi in seguito, e invece no. E guarda che lo credevo sul serio, ché non sembrava proprio possibile tornare ad essere come prima.

Io che lo dico a Ivano e a Marzia, nella cucina di casa mia: “Ma io solo due anni fa ero felice. Davvero, ero una persona felice. Non me lo sogno.” Io che torno in Egitto e lo domando a Julia: “Senti, ma io come ero, quando vivevo qui?” E lei: “Mah, eri una tipa felice, piena di vita.” E io: “Ecco, vedi che ricordavo bene?”

E tutta quell’infelicità, poi. A Milano, durante quella terrificante storia sentimentale in cui ricordo me stessa in bici per la circonvallazione che affiancavo i TIR e speravo che mi urtassero e che mi mettessero sotto, ché non vedevo altro modo per uscirne. E poi tutto quel peggio che non finiva mai e non sapevi più da che parte acchiapparti, ché non c’era millimetro di te che ne venisse risparmiato, da quello che succedeva. E chiedere a Marzia: “Ma finirà? E come ne uscirò?” E lei: “Non lo so. Ne uscirai inaridita, ma ne uscirai”. Ed io che mi immagino inaridita e penso a una vita intera da vivere così, inaridita, e penso che allora voglio morire e non c’era mattina che mi svegliassi senza pensare che, guarda, volevo proprio morire.

E poi no. Poi credo che ci sia stato un periodo in cui non sentivo quasi niente, forse, se non una vaga simpatia per ciò che mi circondava – per Genova – e un sorridere che non arrivava fino a dentro, ma c’era. E sono stata per mesi in una specie di limbo in cui non sapevo quante energie mi rimanessero, e quanto fossi capace di rimettermi al centro della mia attenzione e di prendermi cura di me. Non ero certa che fosse possibile.

La svolta vera è arrivata a Gennaio, quando sono andata a fare “toc-toc” al San Martino e gli ho detto che volevo mettermi a dieta, che ero un disastro da rieducare e che mi servivano istruzioni. E mi capirono perfettamente, mi dissero cosa fare e poi mi dissero di prendere l’appuntamento successivo tramite l’ASL e io li guardai atterrita e mi venne fuori un: “No, però non abbandonatemi!” Ecco: capiscono tutto, là. Sono di una bravura da fare spavento, eppure mi hanno solo insegnato a mangiare più verdura e a camminare di più. Hai detto niente…

Poi arrivò lo scienziato nella mia vita e lì mi feci proprio il collaudo, un pezzo alla volta: sì, sono ancora capace di farmelo piacere, un uomo, e di fare casini inutili, metterci un po’ di dramma, far volare lenzuola e pure innamorarmi il giusto. Funziona tutto. Collaudo riuscito. Poi è finita, con lo scienziato, ma a modo suo è stato importante. E sennò come facevo a saperlo, che era tutto a posto?

E poi mi sono accorta che ero tornata ad essere felice. A un certo punto ho cominiciato a dire a Marzia che stavo tornando del mio umore vero, che cominciavo a sentirmi come “prima”. Prima che lei mi conoscesse, molto prima di arrivare a Genova, prima di lasciare l’Egitto. Mi svegliavo di nuovo col friccicorìo nel petto, la mattina, e con la risata a fior di pelle, la voglia di stare non bene ma benissimo, il piacere di stare al mondo e le cose belle che sono lì per te, il mondo che ti è amico. Fine della convalescenza, è tutto a posto. Incredibile.

E poi mi arriva come fiocco di panna finale sulla torta il trasferimento definitivo a Genova. Ed io che passo tre giorni a stringermi la mano colma di ammirazione per me stessa, per il mio angelo custode e per il Fato benigno, e mi dico che sono bravissima – che dico, stra-brava – e che, non si sa come, le cose importanti le ho beccate e mi assaporo i palazzi del ‘400 e i miei vicoli, il mare e la luce di Genova, il mondicello che ho qui e le osterie e le chiacchiere e questa dimensione che mi è così congeniale, questa città spigolosa il giusto per non chiedermi di scusarmi per la mia, di spigolosità, e amichevole di fondo come me, oltre gli spigoli. Felice, e grata a ‘sto posto e al colpo di culo galattico che me lo ha fatto trovare, e alle cose che più lisce non potevano filare, davvero.

Tre giorni così.

Al quarto giorno, esce un concorso in Spagna con un’opportunità di lavoro che non c’entra un beato cavolo con Genova e con tutto ciò di cui ho parlato fino ad ora. Mi viene comunicato con un sms dall’Africa: “Prepara i documenti, è uscito il concorso”.

E adesso sono qui, sommersa dalle carte da ricostruire, dai documenti da tradurre, dal labirinto burocratico in cui annego e mi devo districare e mi prende la paralisi e io le odio con tutte le mie forze, ‘ste cose, ma ho 5 giorni di tempo per fare tutto e lo devo fare, lo farò e non ci sono per nessuno fino a che non ho finito.

Di fare ‘sta cosa che non c’entra un cavolo ma che, uff, una ci prova, e un pochetto sta già sognando, ché comunque vada c’è il friccicorìo pure a sognare e perché dovrebbe perderselo, una?

Ed è di nuovo il menù di quando ero piccola, quello che mi ricordava mio padre: tutte quelle cose buone da mangiare, e sapere che il pasto è uno solo e bisogna scegliere, ma tu vorresti tutto.

Una vita sola è troppo poco, non è possibile. Non ce la faccio. Devo averne almeno un’altra. Altre due. Altre quindici. Perché sono talmente tante, le cose, ed è talmente ricco, ‘sto menù, che l’unica è viversi una vita all’anno, o ogni due o tre anni, ché altrimenti è troppo, quello che ti perdi.

E quindi una ci prova.

Compatibilmente col suo caos, la sua disorganizzazione e la sua incapacità strutturale di districarsi fra le carte, una deve – proprio deve – affrontare ‘st’incombenza e vedere cosa succede. E magari quest’anno non succede niente ma tu intanto hai già tutte le carte a posto e hai capito come si fa, e l’anno prossimo ci ritenti e poi chissà.

Il punto è mantenerlo aperto, ‘sto menù pieno di roba, ché ognuna sa volersi bene come può, e il mio modo di volermi bene deve essere questo, e a 46 anni ce l’ho nelle mie mani, la mia felicità, ed è tutta roba mia. Mi sa che è il senso di libertà, il responsabile del friccicorìo.

Vado a fare un giro. Poi risalgo a tradurre, sì.