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Mi chiama festosa e con la voce che trilla e, in sottofondo, si sente: “Campeones, campeoooones…” e un mucchio di urla e allegria e lei ride e mi dice che sono lì con Isra, Tizia, Caio e mi fa sentire il casino di Valencia e io pure rido, ché mi sono vista la partita dagli schermi di piazza Pollaiuoli pensando a lei e con una tavolata di tedeschi davanti che l’hanno presa sportivamente, onore a loro, e finiamo la serata nei vicoli, io e mio fratello, bevendo birra e mangiando mandilli al pesto e gelato e raccontandocela sulla Pupina, la star della nostra serata di italo-tifosi spagnoli per forza e non per caso.

Avevo chiamato mio padre, tra i due tempi: “Stai tifando il giusto?” “Epperforza!“, mi fa lui. “Sennò chi la sente, la Nip“. Perché loro sono Abu e Nip, nel loro codice, e non c’è chi li smuova di lì.

Io ho una figlia che è sempre stata un cucciolo, assai più piccola della sua età e senza il minimo di fretta nel crescere. Nessuno mi crede, quando lo dico, ché sembro la tipica mamma che vede la figlia bimba a vita. Poi la conoscono, gli altri, e confermano: “Ma è una bimba, tua figlia!!” E io che avevo detto, scusa? Pare che una dica stronzate, gessù, e invece è un cucciolo davvero, oggettivamente. Ci ho la figlia così, col naso a patata e piccina, bimba allegra. Mi è venuta così e amen.

Però se lo è portato via di casa a 19 anni, il suo naso a patata, in un mondo in cui a 30 anni sono ancora con la mammà, i figli, ed io so perché lo ha fatto: per recuperare la sua metà spagnola, il suo passaporto spagnolo, il suo certificato di nascita made in Sevilla, le radici del suo amatissimo papà spagnolo, la sua storia di Natali e feste comandate nella famigliona della Rioja e il fatto che, guarda caso, si era innamorata di uno spagnolo, chi l’avrebbe mai detto? Il perché lei lo abbia fatto è chiarissimo, lo è sempre stato. Un po’ meno chiaro è il perché io glielo abbia permesso.

Io ho fatto qualcosa di più che permetterglielo: l’ho spalleggiata, sostenuta, difesa da ogni obiezione. Le sono stata mostruosamente complice, nel suo portarsi via quel naso a patata con l’incoscienza dei 19 anni vissuti da bimba, e nessuna delle due era davvero consapevole di quanto fosse definitiva, quella serata a sbronzarci io e suo padre mentre lei dormiva per l’ultima volta con noi, e poi a Malpensa, il giorno dopo, con lei che si imbarcava col suo peluche e noi increduli, a non ostacolare la vita che scorreva e basta, senza altri compiti.

Perché lei lo abbia fatto, mi è chiaro. Perché io glielo abbia permesso, mi è un po’ meno chiaro. In apparenza.

Lascia perdere il fatto che l’istinto me lo diceva, che Milano come l’avevamo vissuta era a termine. Lascia perdere. C’entra, ma come c’entra sempre la consapevolezza che il grosso è fatto e il resto si trascina, non è davvero fertile. Sono campanelli d’allarme ma non è detto che uno li ascolti. Avremmo potuto non sentirli, entrambe.

La verità, per me, è che io non sono stata giovane a Milano. I vent’anni, io, li ho avuti in Spagna. E forse li avrei sentiti estranei, i vent’anni di mia figlia, se fossero stati milanesi. Così come sono, invece – e con tutta la diversità che c’è tra me e mia figlia, ché lei è il sole e io la luna, davvero – io li riconosco. Li ricordo, ci rido e mi emoziono con lei. Non mi sarebbe successo, se fosse rimasta qua. Sono quegli strani giochi dell’appartenenza, per cui ancora ricordo un “Ma ‘ndu l’è che lè?” detto in perfetto milanese dalla bimba che cercava non so cosa, piccolissima, ed io che sussulto dolente, come lui, e quasi non la capisco, eppure ce l’ho sotto al naso, mia figlia.

La Spagna è stata il luogo della mia formazione, e per davvero. E’ stata la mia prima vera casa, il luogo in cui ho imparato a stare al mondo. Ci ho finito il liceo e iniziato l’università, ci ho messo su famiglia e ci ho fatto la figlia, me la sono imparata e mi sono impregnata delle sue cose e, ancora oggi, è il paese che mi dà da mangiare. E’ il mio lavoro, e i prof vendono ciò che sono. E poi è il posto dove verrò sepolta quando morirò, me lo ha comunicato Pupina, e mi pare giusto così.

Quando andai in Egitto, non mi venne manco in mente di andare a presentarmi all’Istituto di Cultura italiano. Al Cervantes, invece, ci andai la prima volta che arrivai al Cairo, e la loro tessera della biblioteca (gratis, speciale per gli ispanisti) fu il mio primo documento egiziano. Eppure ero lì a insegnare italiano, gessù, per quanto mi scappasse da ridere. Chè poi non è che mi senta spagnola, io. Mi sento un’italiana cresciuta in Spagna, ovviamente. Esattamente ciò che sono. Ma, se sono all’estero, i piedi mi portano da loro, non da noi. Chennesò.

E quindi me la vivo su un territorio conosciuto, questa figlia in Spagna. Lei che festeggia Zapatero ed io che ricordo me stessa in piazza a festeggiare Felipe González. Lei che mi chiama trillante per la vittoria della Spagna agli Europei ed io che ricordo il Mondiale dell’82, con l’Italia che vince e la Spagna intera che fa il tifo con me e manco mi ricordo cosa diavolo ci facevo, a Madrid in quei giorni, ma ero lì e avevo visto il concerto dei Rolling Stones il giorno prima e poi le edicole erano piene di copertine con la foto di Pertini esultante e i titoloni: “¡Presidente encantador!” ed io che li guardo sollevata, ché avrebbero potuto anche prenderci in giro, per quel tifo sfegatato di Pertini, e invece mi sento accolta. E grata, appunto.

O la sera in cui il Barcelona vinse la Liga e vivevamo a Castelldefels, noi, e andammo in città a festeggiare ed era tutto un fiume di “Cava”, da Plaza Cataluña a Plaza de Colón, e quello spumante che scorreva giù dalla Rambla come un fiume chi se lo scorda piú?

E le serate a giocare, a sedurre, a diventare femmina. E autorizzarsi a essere forte anche se sei femmina, appunto, cosa non scontata da noi e scontatissima, invece, nel paese di Carmen. E quel mio rapporto comunque complicato con le femmine spagnole, tanto più dure di me e con mille moine in meno, ma poi così serenamente ragazzine in apparenza. Rapporto faticoso che mia figlia ha ereditato – e sennò non sarebbe figlia mia – e però a lei viene meglio, ché ci ha il cromosoma che è sempre mancato a me, e deve essere dalle parti del naso a patata che non è incompatibile col sapere usare un trapano, nel suo immaginario, mentre nel mio sono impensabili entrambe le cose: avere il naso a patata e usare un trapano, tutte e due. Ed è che mia figlia è spagnola – qualunque cosa ciò voglia dire, ché non è che io lo sappia spiegare benissimo – ed io no. Poi ha ereditato da me una certa levità negli approfondimenti chiacchieroni che le complicherà la vita, suppongo, ma comunque naviga meglio di me, là. E, soprattutto, si diverte esattamente come mi divertivo io, certe volte. Ed è un divertimento che capisco con ogni centimetro di me stessa.

Io non lo so, cosa è successo. Mi è partito il cucciolo, poi sono partita io e poi sono passati cinque anni e lei è cresciuta e io sono invecchiata e sono successe cose e nessuno le aveva davvero previste, e qui so solo che il cucciolo è là e non torna.

Però, senti: io me la sento più vicina che se fosse rimasta a Milano, e io con lei. Non avremmo avuto un territorio comune, se fosse andata così. Sarà che, per me, la vita è una cosa che si narra, e quindi è vitale che parliamo le stesse lingue, io e lei. E le parliamo, e lei continuerà da dove ci siamo fermati io e suo papà, dal punto esatto in cui le siamo bastati. Anche se a volte sembra di no, che ce ne voleva di più. Più figlia, più genitori. Ma poi no, poi va bene così. Forse abbiamo più spazio così. E avremo sempre un sacco di cose da dirci, in tutte ‘ste lingue.

(E provaci – tu provaci – a dire che non è così…)