Perché poi, a dire il vero, io di assenteismo nelle scuole non è che ne abbia visto tanto. E parlo anche di quelle frequentate da mia figlia o dai figli dei miei amici. Non siamo una categoria particolarmente toccata dal fenomeno, mi pare. Le Grandi Assenteiste, tra di noi, sono quelle che fanno i figli e, di conseguenza, vanno in maternità. Poco altro, mi pare.
Il fenomeno che si verifica tra di noi, caso mai, è quello che definirei Assenteismo Interiore, ovvero del tirare i remi in barca. E’ un fenomeno che può assumere diverse gradazioni, e va dall’insegnare all’acqua di rose promuovendo tutti purché respirino e dando dieci a chi articola mezza parola, fino alla manifestazione più estrema, ovvero all’impazzimento bello e buono. Cosa non infrequente nella mia categoria:
Nel corso di dieci anni di studi, abbiamo analizzato l’incidenza delle patologie psichiatriche su quattro macrocategorie professionali di dipendenti dell’Amministrazione Pubblica (insegnanti, impiegati, personale sanitario, operatori) e proprio tra gli insegnanti si registra una frequenza di patologie psichiatriche pari a due volte quella della categoria degli impiegati, due volte e mezzo quella del personale sanitario e tre volte quella degli operatori. In generale sono più soggette al logoramento psicofisico le cosiddette helping professions, cioè le professioni di aiuto (psichiatri e psicologi, anestesisti, rianimatori, infermieri, assistenti sociali, preti). I più affetti, in misura drammatica, sono però gli insegnanti. Addirittura il 50% delle loro domande di prepensionamento è per una psicopatologia (il 30% tra il personale amministrativo, il 25% tra gli operatori sanitari, mentre il 16% tra gli operatori).
Ad impazzire nel vero senso della parola, per quanto ne so io, sono soprattutto le donne. I colleghi maschi si fermano prima: meno condizionati dalla mentalità del “dare”, sono più veloci a mettere in atto strategie di autodifesa quando cominciano a stare male. E infatti sono loro, spesso, quelli che promuovono a raffica. E’ la prima cosa che fa un insegnante quando non sopporta più di avere problemi. Promuove. Tutti. E, come per incanto, i ragazzi non ti contestano più, i genitori si tolgono dalle balle, il preside è contento e tu, poco alla volta, smetti di essere ossessionato dalla scuola. A quel punto, per quanto ti riguarda, i ragazzi potrebbero pure morire domani, tutti quanti. In compenso, tu sopravvivi.
Io ci ho pensato spesso. Non credo sia possibile spiegare quanto diavolo è difficile fare arrivare il messaggio che tu, la sufficienza, la dai a patto che lo studente abbia davvero conoscenze sufficienti del programma che deve sapere. E una non può non pensare che se decidesse di risparmiarsela, tutta quella fatica – fatica coi ragazzi, coi loro GENITORI, coi presidi che vorrebbero tutti promossi etc. – il suo stipendio non cambierebbe di una virgola e la sua salute invece sì, e in meglio. Una glielo chiede, certe volte, ai ragazzi: “Scusate, ma secondo voi perché mi accollo la fatica di mettervi 5? Sarebbe così facile mettervi subito 6, non ci pensate?” Poi, vabbe’. E’ come camminare. Finché uno ce la fa, cammina. Quando non ce la farà più, si metterà in poltrona.
[…] In letteratura sono state descritte e analizzate le reazioni di adattamento (coping strategies) che i singoli insegnanti adottano per far fronte al burnout, nel tentativo di reagire a una situazione che, se non affrontata per tempo e adeguatamente, può degenerare in malattia psico-fisica.
Una classificazione delle coping strategies è stata proposta diversificando le stesse in azioni:
dirette, miranti cioè ad affrontare positivamente la situazione
diversive, cioè tese a schivare l’evento assumendo un atteggiamento apatico, impersonale, distaccato nei confronti di terzi
di fuga o abbandono dell’attività, per sottrarsi alla situazione stressogena
palliative cioè incentrate sul ricorso a sostanze come caffè, fumo, alcool, farmaci.
Ecco: la reazione “diversiva” è tipica dei colleghi maschi, secondo me.
Personalmente, nei periodi di crisi tendo al “palliativo”, mi sa: raddoppio le sigarette, mi mangio un pezzo di pizza gigante all’uscita di scuola, esco con l’amica e le racconto le terribili vicende della Terza C davanti a una bottiglia di vino. Poi mi passa, ma è che io a scuola mi diverto ancora. Poi so’ scema e, se basta poco a farmi stare proprio male e a farmi imbestialire che penso che non mi passerà mai più, poi basta altrettanto poco a disarmarmi e a farmi tornare a casa tutta contenta.
Ad alcuni colleghi, invece, non passa. O, almeno, ormai non gli passa più. Forse è questione di tempo o, anche, di fortuna: le scuole non sono tutte uguali e i presidi nemmeno. Può andarti malissimo, se sei sfortunato.
BURNOUT
– sindrome di natura multidimensionale- dipende da particolari fattori stressogeni legati all’attività professionale- fenomeno a eziologia complessa e multifattoriale – caratterizzato in specifico da:1. AFFATICAMENTO FISICO ED EMOTIVO
2. ATTEGGIAMENTO FREDDO ED APATICO verso studenti e colleghi e nelle relazioni
3. SENTIMENTO DI FRUSTRAZIONE DOVUTO ALLA MANCATA REALIZZAZIONE DELLE PROPRIE ASPETTATIVE
4. PERDITA DELLA CAPACITA’ DI CONTROLLO DEGLI IMPULSIInsieme di manifestazioni psicologiche e comportamentali che può insorgere in operatori che lavorano a contatto con la gente e che possono essere raggruppate in tre componenti: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale.
MANIFESTAZIONI CORRELATE:
senso di rabbia, fallimento, colpa o vergogna – incapacità a gestire il quotidiano – trasandatezza e trascuratezza – crisi di panico e d’ansia, facilità al pianto – fobie – disforie – caduta dell’autostima – diffidenza, sensazione di essere spiato / osservato – mania di persecuzione – cinismo – apatia – pessimismo cronico – dereismo spazio temporale – rivendicazioni – collasso delle motivazioni – perdita di autocritica e autocontrollo – evitamento di impegni, resistenza al lavoro, disinvestimento – ossessioni e compulsioni – sensazione di essere vittima di MOBBING
E poi, come è ovvio, se uno sta male è perché non è un bravo prof. Così dicono. Poi invece, ai corsi di aggiornamento ti spiegano le possibili dinamiche di classe, tra cui c’è quella della creazione, tra i prof, di un capro espiatorio. E ricordo il formatore che ci diceva che spesso è il prof più bravo, il capro espiatorio. Perché il gruppo si difende (dalla fatica che lui vorrebbe fargli fare?) attaccandolo, e attaccandolo dai lati. Come i lupi coi leoni, qualcosa di simile. Comunque sia, non c’è lupo o leone che tenga: se tu stai male a scuola ti senti un verme, professionalmente parlando. L’autostima se ne va a mare, proprio. Ci credo, che ti vergogni a dirlo. Molto più facile impasticcarsi in silenzio, credo, o bere fino a sfinirsi. O, più virilmente, decidere che te ne fotti:
“Burnout” significa in inglese “scoppiato” o “bruciato”. Si parla di sindrome quando a causa del lavoro si entra in una spirale discendente prodotta da un accumulo cronico di stress e caratterizzata da sintomi quali l’affaticamento fisico ed emotivo. Un atteggiamento apatico e distaccato nei rapporti interpersonali, nel caso degli insegnanti con studenti e colleghi. Un sentimento di frustrazione dovuto alla mancata realizzazione delle proprie aspettative. Infine, un ultimo aspetto è la perdita di controllo degli impulsi (autocontrollo).
A scuola non puoi imbrogliare, sul tuo stato emotivo. I ragazzi lo sentono lontano un miglio e ti studiano, ti scrutano con la lente d’ingrandimento: “Prof, lei non ride. Prof, lei prima ha sorriso. Prof, lei pensa questo e quello e quell’altro. Prof, lei ce l’ha con me perché, mentre mi guardava, si è grattata un orecchio. Prof, ma che le prende? Ho solo urlato/picchiato il compagno/fatto volare palline/bruciato il quaderno, non c’era bisogno di arrabbiarsi così. Lei è troppo nervosa, prof.”
Quali sono i “fattori usuranti” nell’attività di un insegnante?
In primo luogo ci sono i rapporti e le relazioni con colleghi, studenti e genitori. In particolare oggi questi ultimi non sono più alleati dell’insegnante. Anzi, il genitore è diventato il “sindacalista” del figlio, spesso unico, rivelando in modo più o meno smaccato il cosiddetto “narcisismo genitoriale” e confinando il docente dietro il banco degli imputati. Poi ci sono gli aspetti legati alla società multietnica e multiculturale che richiede uno sforzo continuo di comprensione e aggiornamento. La conflittualità con i colleghi dovuta al fatto che non si è abituati a lavorare in squadra, la situazione di precarietà di molti insegnanti. Inoltre l’aumento della presenza in aula di studenti portatori di handicap ha aggiunto un ulteriore fattore di complessità. Infine la delega educativa della famiglia, frequentemente monoparentale, ha contribuito a rendere più pesante e responsabilizzante l’insegnamento.
A me fa paura, tutta quest’aria alla Brunetta, perché riconosco nei fattori usuranti altrettante mie sfide personali che, fino ad ora, ho vissuto come prospettive stimolanti. Le classi piene di ragazzi stranieri, metti: io credo che sia la sfida per eccellenza di questi anni, per la mia categoria. Se c’è un campo in cui abbiamo tutto da imparare, valanghe di roba da studiare, esperienza da fare e così via, è quello. Se la viviamo bene, è la prospettiva più fertile che il mestiere possa offrirci. Solo che, per viverla bene, devi metterci un mare di lavoro e di entusiasmo tuo, che nessuno ti chiede di avere e nessuno ti retribuisce. E in un clima come quello che si percepisce, come fai? Ti senti una demente, viene solo voglia di entrare in classe, dire quello che devi dire e poi uscire. Solo che, se la prendi così, poi finisce che non impari nemmeno a gestire certe situazioni. Col risultato che poi ‘ste situazioni ti mangiano, se ci incappi.
FASI DI EVOLUZIONE DELLA PROBLEMATICA
1. ENTUSIASMO IDEALISTICO
Caratterizzata dalle motivazioni che hanno indotto gli operatori a scegliere un lavoro di tipo assistenziale:- motivazioni consapevoli – motivazioni inconsce
2. STAGNAMENTO
L’individuo continua a lavorare ma si accorge che il lavoro non soddisfa del tutto i suoi bisogni. Si passa spesso in questi casi da un superinvestimento iniziale a un graduale disimpegno.
3. FRUSTRAZIONE
impressione di non essere più in grado di aiutare alcuno, con profonda sensazione di inutilità e di non rispondenza del servizio ai reali bisogni dell’utenza; scarso apprezzamento da parte dei superiori e degli utenti; convinzione di una inadeguata formazione per il tipo di lavoro svolto
4. “MORTE PROFESSIONALE”
graduale disimpegno emozionale conseguente alla frustrazione, con passaggio dall’empatia all’apatia
Madonna, che nome: “morte professionale”. Voglio dire: so’ cose serie, queste. Tenersi a galla, lavorare meglio che si può non è una cavolata. E’ fondamentale, proprio. Una invece ha la sensazione che da un lato la stiano distruggendo, la scuola – e con lei le tue possibilità di lavorare decentemente – e dall’altra che nessuno se ne accorga e/o nessuno se ne fotta. Tutti lì a sperarti “finalmente punito”, e chissà mai per cosa. Perché io, davvero, non ho la più pallida idea del motivo per cui dovrei essere punita, per dire. Ma sinceramente, proprio. Questa situazione demenziale per cui mi vengono tolti soldi e peggiorate le condizioni lavorative mentre mezza Italia applaude, io non la capisco. Con tutta la buona volontà, non riesco a capire cosa posso mai avere fatto per meritarmela. No, davvero.
E come si reagisce, dinanzi a una cosa del genere?
1. BURNOUT CLASSICO O FRENETICO
il soggetto di fronte allo stress reagisce aumentando a dismisura la propria attività lavorativa fino all’esaurimento psicofisico[…]
3. BURNOUT DA SCARSA GRATIFICAZIONE
dovuto a un lavoro ritenuto troppo stressante rispetto al riconoscimento che lo stesso comporta. L’individuo riduce il proprio ritmo lavorativo col preciso fine di prevenire il sopraggiungere dell’esaurimento.
Non lo so. Io, una cosa che faccio spesso è scendere dall’autobus alla fermata della Darsena. Scendo e vado sparata verso il mare, grata di ritrovarlo lì. Mi cerco uno spicchietto di sole, mi siedo sulla banchinetta di legno davanti alle barche dei pescatori e lì, con le gambe penzoloni, me ne sto a fumarmi la mia sigaretta e ad aspettare che mi scivoli di dosso, la giornata con tutti i suoi annessi e connessi. Non penso, sto solo lì. Guardo l’acqua e lo assorbo, lo spicchietto di sole che mi arriva addosso. Poi vado a casa. Oppure, nei giorni proprio neri, decido che non ho voglia di andarci, a casa, e mangio lì vicino, dove fanno la pizza davanti al mare. Che la pizza è una mezza schifezza ma la birra no, e mi tolgo il maglione (alle 7 di mattina, quando esco, fa freddo) e cerco di abbronzarmi ancora un pelicchio, mentre aspetto la pizza e prima che sia proprio inverno.
ALCUNI CONSIGLI PRATICI
Puntare verso una COMUNICAZIONE EFFICACE tenendo presenti gli effetti della comunicazione sul comportamento umano
Giusto livello di distacco rispetto alla vita scolastica
Giusta distanza personale e interpersonale (EMPATIA)
Distinguere il personale dal professionale
Saper dire di no senza sentirsi in colpa
Tentare la condivisione con le famiglie
“Tentare”, già.
Bello, quel “tentare”.
Qualche link sul Burnout:
Qui (in pdf), qui, qui, qui e in tanti altri posti ancora.
“Questa situazione demenziale per cui mi vengono tolti soldi e peggiorate le condizioni lavorative mentre mezza Italia applaude, io non la capisco.”
Ma allora lo fate sto sciopero o no?! Per una volta!
Il burnout è un problema serio. L’ho visto fra ragazze di callcenter e non è un bello spettacolo.
Ci callcenterizzeremo per solidarietà.
Jcm: io conto di fare tutti gli scioperi di quest’anno, nessuno escluso. Se i sindacati ci facessero il favore di essere all’altezza delle circostanze, sarebbe una buona cosa.
Registro però che in sala prof si stanno facendo i conti in tasca, tutti quanti. Speriamo siano lungimiranti, che ti devo dire.
Che poi chissà di cosa si lamentano, certi. Qua, quella che dovrebbe lamentarsi sono io, che ce l’ho come datore di lavoro, lo Stato e, di conseguenza, con la Pubblica Amministrazione è una vita che ci ho a che fare. Come utente, dico. E parecchio di più di quanto non accada a chi lavora nel privato, come dire.
Per dire: sono passata di ruolo nel 2005. Tra un po’ sarà il 2009 ed io sono ancora in paziente attesa della mia ricostruzione della carriera, scatti di stipendio e arretrati compresi. Nel frattempo, continuo ad avere lo stipendio di una neoassunta alla prima esperienza. Perché ci mette anni, lo Stato, per fare i conti di quanto ti deve pagare una volta che ti ha assunto. E ci mette una decina di anni ad assumerti, come è noto. E’ riflessivo di temperamento, chennesò.
Oppure: ho fatto dei corsi fuori dalla mia scuola, l’anno scorso, da dicembre a maggio. Siamo a ottobre e non solo non mi hanno ancora pagato, ma per capire quando lo avrebbero fatto ho dovuto insistere assai. Pare che i fondi per pagarmi siano stati finalmente stanziati, mi hanno detto l’altro giorno. Potrebbero pagarmi a ottobre/novembre. Cinque o sei mesi dopo la fine del corso.
Io, quindi, potrei sacrosantamente ritirare la mia disponibilità a rifarlo, un corso di quel genere. E, infatti, in una delle mie email furibonde e senza risposta, ho giustappunto comunicato che non ero più disponibile. Però, sai: è un corso che si tiene in un contesto di estrema difficoltà (degli alunni, dico) e che, quando sorge la necessità, andrebbe proprio fatto. Potrei sentirmi davvero un po’ un verme, a dire di no. Rimane il fatto che aspetto da 5 mesi i quattro soldi con cui ti pagano, ed è che ci fai il callo, a sentire la voce della responsabilità tralasciando il fatto che ti pagano quando si ricordano, qua. Ci fai il callo, fino al momento in cui ti rompi le palle. E questo mi pare l’anno giusto per rompersele.
Da precaria, ho sempre preso servizio a settembre ma non sono MAI stata pagata a settembre. Il primo stipendio mi è sempre arrivato verso dicembre. Un anno arrivò a febbraio. Il primo stipendio. Ricordo le colleghe precarie anziane, in sala prof, che si chiedevano sgomente come pagare l’affitto. Avessimo avuto un datore di lavoro privato, forse avremmo avuto qualche strumento per difenderci. Ma lo Stato se ne permette parecchie, di cose che per un privato sarebbero contro la legge. Già solo il fatto di licenziarti a giugno a riassumerti a settembre PER ANNI è qualcosa che un privato non potrebbe fare, credo.
Io potrei andare avanti per una decina di pagine, a parlare male della Pubblica Amministrazione. Solo che mi è chiarissimo che non sono gli impiegati della PA, l’intoppo. E’ proprio la macchina. Oltre al fatto che ci marciano pure, i nostri politici, a fare giochini con gli stanziamenti dei soldi che servirebbero a pagarci. A pagarci in ritardo (e senza interessi, ovviamente) le casse dello stato ci guadagnano. Lo sapevate, che succede questo?
Di più. Io ho sempre visto che quelli che la fanno andare avanti, la PA, sono le persone dotate di quella cosa che si chiama “senso dello Stato”. Inutile cercare di spiegare cosa sia a chi non lo sa. E, a quanto leggo in giro, sono parecchi quelli che non lo sanno. E sono parecchi anche quelli a cui dà fastidio persino l’idea che possa esistere, una cosa del genere.
c’è questa cosa che mi preoccupa dei genitori di oggi. io non ho figli, non sono un insegnante, non so se l’impressione che stia andando tutto a puttane sia giustificata, cmq:
io ricordo perfettamente che alle elementari il maestro ci bacchettava sulle palme delle mani con un righello.
non sai rispondere? una mazzata (“mazzate” le chiamava). non hai fatto i compiti? 4 mazzate. hai suggerito? 10 mazzate. hai fatto chiasso? 20 mazzate. una volta lui capì che un compagno aveva beccato un suggerimento e minacciò di dargli quaranta mazzate se non avesse detto chi era stato. il compagno non parlò, ma ne beccò solo 10.
i genitori non erano molto contrari, perchè all’epoca (sto parlando degli anni 70, non del 1800) i metodi erano ancora un po’ su quel genere. insomma, c’era ancora l’idea della disciplina, e cmq loro ne avevano passate di peggio. sono sicuro che c’era chi pensava che le bacchettate fossero troppo e chi troppo poco.
ora, io sono contrario alle punizioni fisiche, e non perchè abbia beccato le “mazzate” dal maestro e dai miei (chi non le ha prese, della mia generazione?), ma perchè so che i tempi cambiano e il progresso si fa anche nell’educazione. ci sono modi migliori per crescere i bambini, oggi, che sicuramente non si conoscevano 40 anni fa, punto.
ma c’è una cosa che non può essere cambiata, e cioè che i bambini devono riconoscere l’autorità. dei genitori come degli altri educatori.
io m’incazzo, per esempio, per come si pongono mio fratello e la moglie verso il figlio. troppo spesso uno gli dice si e l’altra no o viceversa. il bambino ha imparato che può sfruttare il conflitto e fa le lacrime all’uno e/o all’altra finchè ottiene le cose, altrimenti fa un casino della madonna. secondo me è una peste, ma so che non è colpa sua.
per lo stesso motivo i genitori che vanno a scuola a minacciare l’insegnante che vuole bocciare il figlio somaro non fanno altro che creare pesti. i bambini imparano, dai conflitti tra i genitori o tra i genitori e gli insegnanti, che l’autorità non è importante se hai qualcuno che ti protegge. certi genitori condannano i figli alla disonestà.
insomma, del mio maestro delle elementari conservo pochi ricordi, ma sono convinto che il rispetto _e_ il timore siano serviti a qualcosa. così come so che oggi si può educare senza “mazzate” e più proficuamente, ma senza collaborazione dei genitori è impossibile.
ps: l’ovvia obiezione “ci sono anche insegnanti stronzi” non mi convince. si, immagino che siano troppi, considerato che in un mondo migliore non dovrebbe esistere neanche un insegnante incapace come neanche un genitore incapace.
ma nel mondo reale per fare l’insegnante bisogna studiare un bel po’, mentre per fare i genitori non servono diplomi, e gli insegnanti ovviamente hanno molti più ragazzi a cui pensare e più volte nel corso degli anni, quindi accumulano più esperienza rispetto al singolo o coppia, e oltretutto molti insegnanti sono anche genitori, eccetera eccetera eccetera.
insomma, fuori dai denti, io quando vedo un video su youtube tipo i ragazzini che sfottono l’handicappato la prima cosa che penso è che siano stati generati da stronzi fumanti invece che da esseri umani. poi magari è colpa della maestra, ma voglio le prove.
Lia tu hai il buorbon frenetico.
Il fatto è che per rifarti il cervello scappi e te ne vai a fare le cose più assurde per una proff…parlo dell’Africa.
E credo che siano queste le cose che ti salvano.
Smetterò di criticarti.
che cazz’è il “bourbon frenetico”? il whiskey?
cmq sono tornato on topic anche tra me e me rispetto al post (:P) perchè pensavo che questa di brunetta è l’ennesima non-soluzione che serve solo per fare effetto sui loro elettori-tipo. forse il berlusca ha imparato dalla lega, forse il contrario, non so.
è come la questione rifiuti: và in campania una settimana, poi dice che è risolta e torna a casa. la monnezza in realtà l’hanno solo tolta dalle strade più in vista quando non hanno semplicemente fatto nulla, ma lui ha detto che è risolta e il resto d’italia gli crede.
quindi berlusconi (brunetta? non avete capito niente) risolve i problemi della PA, facendo vedere all’italia come cazzia e punisce i dipendenti statali che si dànno malati invece di lavorare. certo lui ha fatto ministra una pomp… un personaggio che non ha altra esperienza se non qualche calendario senza vestiti, ma per gli italiani il problema è risolto.
e poi berlusconi risolve i problemi dell’alitalia, caricandoci qualche altra miliardata di tasse e facendo arricchire sempre i soliti personaggi.
com’era la storia? basta ripetere la balla con convinzione e la gente ti crederà.
Mi sembra che la maggior parte dei motivi di sclero (prima che Brunetta aggiungesse dell’altro) venisse dai genitori degli alunni. Però se lo scatafascio di una società è arrivato dentro alle famiglie (e mica parlo di divorzi, mica sò il papa!) vuol dire che è proprio ora di tirare lo sciaquone.
A scuola sarà pure peggio, ma io le cose le vedo dal cortile. Quando si era piccoli noi (noi del 1984 dico, non del 48), se si faceva qualche cazzata, il primo adulto che se ne accorgeva ci sgridava/girava un orecchio e al nostro primo parente adulto che incontrava raccontava la cazzata in questione. Ora invece senti i bambini che giocano a calcio, col capetto che insulta chi non fa goal usando nomi di varie nazionalità come se fossero insulti. Siedono quattro mamme lì vicino, e nessuno dice niente. Sicché mi rompo le palle e faccio per andare giù con la saponetta a vedere di lavargli la bocca (ai tempi subii questa punizione per molto meno, eppure sò viva e sana). Avevo già agguantato il sapone, quando sento la voce piagnucolante dello stesso bambino. E’ arrivato suo padre a dirgli che sua mamma non c’è e lui stesso sta andando A CORRERE PER 40 MINUTI. Sono le 19.00 e il bambino tenta di obiettare che tutti se ne andranno a mangiare e lui rimarrà solo come un cane. Niente da fare! Suo padre è uno di polso e non si lascia commuovere! 40 minuti son 40 minuti, e guai se per una sera non va a correre.
E allora che vuoi fare, se quella è la piota, come ti aspetti che sia il germoglio? Lascia stare il sapone, ché tanto capirai che cosa cambia.
“Jcm: io conto di fare tutti gli scioperi di quest’anno, nessuno escluso. Se i sindacati ci facessero il favore di essere all’altezza delle circostanze, sarebbe una buona cosa.”
Mi rendo conto, però c’è anche da dire che il sindacato lo fanno gli iscritti. Io ne so qualcosa, diciamo “indirettamente”: oltre ad una madre maestrina, un padre ferroviere macchinista iscritto alle “teste di cuoio” della Filt-Cgil (quelli che appena non gliene va bene una fermano il paese per 3 giorni, gli stessi che hanno tirato con Alitalia fino all’ultimo minuto). Devo dire che c’è una differenza di mentalità fra queste due categorie di lavoratori che è enorme, almeno così mi è parso. Come si spiega? Perchè il settore trasporti della CGIL è un reparto d’assalto mentre quello della scuola invece… lasciamo stare!
Naturalmente generalizzo, ma non credo di sbagliare.
Faccio parte di una categoria, quella dei commercialisti, anch’essa tra i primi posti per tasso di incidenza di stress, infarti e suicidi.
Dopo un viaggio in India (dove lavora mia sorella Giovanna la piccola cuoca, che forse conosci)mi son detto: ma chi cazzo me lo fa fare di vivere in questo modo: ho smesso di fumare e mi sono iscritto ad un corso di Bikram Yoga.
Oggi, dopo un anno, la mia vita è cambiata e nonostante che attorno a me tutto sembra precipitare mi sento proprio bene.
Morale: La felicità la trovi dentro di te… basta non aprire gli occhi.
Jcm: no, non sbagli. Siamo una categoria mansueta e pecorona, me ne lamento da sempre. E, da sempre, sospetto che ciò sia dovuto al fatto che siamo in maggioranza donne. Con buona pace di qualsiasi pippa autocelebrativa sul femminismo.
dovrebbero fare una ricerca scientifica sullo stress dei compagni delle insegnanti.
non so se tu hai mai avuto una compagna professoressa, ti assicuro che è una vita dura.
:-)
siamo in balia delle loro giornate scolastiche, da quelle dipende l’umore a casa, la qualità del cibo, la voglia di uscire e, ultimo ma non ultimo, le trombate.
(dall’insediamento della gelmini questo ultimo punto ha avuto un tracollo tragico)
mi sa che al prossimo sciopero della scuola (se mai riuscite a mettervi d’accordo per farlo) partecipo anche io. ormai ne ho diritto.
Ne ho visti di colleghi BRAVI spegnersi per la fatica, lo stress, la disillusione. Ed e’ uno dei motivi (soldi a parte) per cui ho deciso di cambiar mestiere prima di rischiare il burnout anche io. Anche se le classi mi mancano — e credo che mi mancheranno sempre — anche se fare l’insegnante e’ pur sempre il lavoro migliore del mondo. Se te lo lasciano fare. E per ora mi sa che e’ escluso che lo lascino fare.
Non sono poche le insegnanti che hanno un marito con un reditto molto più alto, lavorano per pagarsi il parrucchiere, gli sfizi. Queste vostre colleghe sono una zavorra per la categoria, sono quelle che non manifestano, quelle su cui non potete contare. Non ne uscirete fino a quando non vi farete riconoscere il contratto a 36 ore, il prezzo da pagare sarà una maggiore presenza a scuola, ma non vi porterete più il lavoro a casa.
Sì, ci pensavo anche io in questi giorni.
Come diceva una collega su un newsgroup:
“Volentieri, a me va bene 8.00 – 14.00, con un paio di rientri e un giorno
libero.
Mi basta solo uno studio, un computer, una libreria dove mettere i miei
libri di scuola, un po’ di materiale per lavorare.
Sarebbe la volta buona che libero la stanza che a casa adibisco a studio,
vorrei farne un salottino per ricevere le amiche.”
Mi vorranno mica fare lavorare in corridoio, dico io. Detto questo, e con adeguamento dello stipendio, ci sto. E di corsa.
Le 36 ore non le potrete negoziare fino a quando non sarete maggioranza, i sindacati non hanno alcun interesse a lanciare la proposta perché temono la perdita delle deleghe (picciuli, dané). Potrebbe essere previsto un contratto differenziato, con l’opzione a tempo pieno in istituto e aumento stipendiale.
Come fai a mettere l’opzione? A meno che non si creino due corsie di prof a seconda dei carichi (ipotetici) di lavoro, idea che mi lascia assai perplessa. Perché, che uno certe ore di lavoro le svolga a casa o a scuola non cambia un bel nulla, se non che a casa stai in pigiama. Mettere un opzione dovrebbe prevedere che chi sta a casa di pomeriggio non prepara né corregge compiti e così via, e non avrebbe senso, dico io. Parliamo di carriera interna, piuttosto. (E, uno di questi giorni, anche di personale ATA…)
La Gilda, comunque, non ha tutti i torti quando scrive:
“Il Ministro Brunetta ha preso come riferimento della sua demagogica lotta ai “fannulloni” l’idealtypus dell’impiegato ministeriale romano dimenticandosi, insieme a tutto il governo e al parlamento, che la professione docente non può essere assimilata al livello impiegatizio, che nella scuola da anni esistono norme che impongono visite fiscali e controlli sull’assenteismo e che il tasso di assenteismo per malattia è molto più basso di altri comparti.
Da vent’anni Gilda chiede che la docenza esca dal comparto del pubblico impiego e che si definisca un’area di contrattazione separata con uno status giuridico specifico. I confederali e lo SNALS hanno sempre preferito le logiche dell’omologazione e dell’assimilazione al pubblico impiego. Questi sono i risultati!
E’ necessario quindi non solo chiedere una profonda revisione dell’art. 71 per il comparto docente della scuola, ma anche a chiedere a gran voce di rivendicare come docenti uno status giuridico diverso da quello previsto per tutti i pubblici impiegati.”
Non cambia il lavoro ma modifica radicalmente il rapporto col datore di lavoro. Chi opta per le 36 ore svolge tutta la sua attività in istituto, compresa la preparazione e la correzione dei compiti, e proporzionalmente percepisce uno stipendio superiore. Brunetta sostiene che lavorate part-time e perciò 1300 Euro al mese sono anche tante, voi chiedete 36 ore e 2600 Euro al mese. Considerazioni interessanti le trovo nel punto 1 della pagina http://www.didaweb.net/fuoriregistro/leggi.php?a=863
Repubblica nel 2006 riprese uno studio della APOLLIS – INSTITUT FUER SOZIALFORSCHUNG UND DEMOSKOPIE per la provincia di Bolzano
http://www.gildavenezia.it/docs/Archivio/2006/magg2006/quanto_lavorano.pdf
http://www.apollis.it/24d309.html
Certo che il lavoro dei docenti non è assimilabile a quello degli impiegati, le visite fiscali e tutto il resto, ho una moglie docente, vuoi che non lo sappia? I conf e lo snals la pensano diversamente perché anche i loro iscritti la pensano diversamente, se la metà degli iscritti revocasse le deleghe e quindi la trattenuta dallo stipendio sai come cambierebbero subito idea?