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Dice il collega che è andato a lavorare con un’infezione virale agli occhi.

Dice che in altri tempi se ne sarebbe stato a casa, ma che vista l’aria che tira non ha voglia di farsi fare trattenute sullo stipendio al solo scopo di non infettare il prossimo. Dice che lui avverte gli studenti e i colleghi, correttamente: “Statemi lontano, sono contagioso”, ma che non può comunque evitare di toccare strumentazioni e materiali vari. D’altra parte è personalmente in grado di lavorare, quindi lavora. Con una certa soddisfazione malvagia, anche, ché la domanda del giorno è: “Ma l’Amministrazione, a questo punto, cosa fa?” Nel senso: può importi di stare in malattia, in un caso del genere, e di farti decurtare lo stipendio in nome della salute pubblica? Ce lo chiediamo davvero, tutti quanti. Fino a questo momento, in mia presenza non è stata data una risposta.

Intanto si elaborano strategie di sopravvivenza. C’è per esempio la questione dell’incompatibilità oraria tra i nostri arresti domiciliari, in caso di malattia, e la necessità di farci fare il certificato medico.

Come suggerito anche dai miei commentatori, quindi, l’orientamento è di obbligare i medici di base a venire a domicilio. Sempre, per qualunque cosa. Se poi voi non li trovate in studio e vi si triplicano i tempi di attesa, cavoli vostri. E non solo: c’è la questione della DURATA del certificato medico, e la faccenda è abbastanza seria. Spiego perché.

Dunque: prima, succedeva che il medico ti diceva: “Mah, tra un tre giorni starà bene”. Tu, fiducioso, assentivi, la scuola si organizzava di conseguenza per coprire le classi e così via

Adesso che ci decurtano lo stipendio, comprenderete che temiamo che il medico calcoli in eccesso. E se domani riuscissi a stare in piedi, metti? Che faccio, rimango a casa per fare risparmiare lo Stato? L’unico modo per autotutelarci, quindi, è farci fare il certificato giorno per giorno. Così, fino a quando non ci sentiamo guariti, il medico lo chiamiamo tutti i giorni, e tutti i giorni avvisiamo a scuola che per quel dì saremo assenti e così via. Smadonneranno? Pazienza. Diamoci obiettivi brevi, ecco, ché direi che non c’è altra soluzione. Sì, è un po’ un disagio per medici, scuole e utenza, ma non è scritto da nessuna parte che l’inferno debba essere un vissuto individuale. Condividiamolo, da bravi fratellini.

E poi c’è la questione degli arresti domiciliari in sé, al di là del certificato. Perché pure prima ce ne stavamo a casa in attesa della visita fiscale, come è ovvio, ma il senso dell’attesa era, appunto, quello di essere reperibili per la visita. Adesso è semplicemente punitiva, la questione: dalle 8 di mattina alle otto di sera di tutti i giorni, domenica compresa, con un’unica ora d’aria dalle 13 alle 14, quando negozi e farmacie sono chiusi. E che senso ha, scusami, se non quello di mortificare e punire per chissà cosa?

Uno può avere, metti, un’infezione virale agli occhi, o una spalla lussata, o un cancro, o mille patologie che non obbligano a stare a letto o che, addirittura, richiedono di prendere aria per prescrizione medica. No. Brunetta non le contempla. Agli arresti, siamo. Solo che in carcere c’è, almeno, chi ti fa da mangiare e chi ti dà le medicine. In casa, se vivi solo, no.

Diciamocelo chiaramente: abbiamo un’opposizione che non fa il suo lavoro, un sindacato debole e diviso, una situazione generale in cui la gente fa fatica a scioperare, economicamente parlando. Rimangono le risorse individuali e poco più.

Se un dipendente pubblico vive solo – quanti saranno i single, i separati, i vedovi? – direi che se ne devono occupare gli assistenti sociali, se si ammala. E chi, altrimenti, se lui non si può muovere per tutta la durata della malattia? E non venitemi a dire che voi, con la febbre, non scendete a comprarvi il pane, se avete fame. Io l’ho sempre fatto, pure con la febbre a 39.

Che mandino qualcuno del Comune a fargli la spesa, al single, al separato e al vedovo. Che ti devo dire. Che gli mandino le medicine a casa.

Io chiamerò il 118, la prossima volta. E questa è l’aria che tira. Chiamare il 118. Che altro dovremmo fare, scusa? No, per sapere. Scappare dalla finestra per andarci a comprare l’antibiotico? Mettere un fantoccio nel letto che simuli la nostra presenza? Ma non lo vedete, che è ridicolo? Che ci stanno passeggiando sulla dignità con le scarpe chiodate? Che non c’è persona sana di mente che possa starci, a una roba così intrinsecamente umiliante? Ma che professori volete, davvero? Degli zerbini strutturali?

Ma davvero vi piace, ‘sta schifezza? Io non ci posso credere, guarda.

Amarcord: di quando tutto questo non esisteva e la sottoscritta prof fannullona si presentava a scuola fresca di distorsione alla caviglia e pure senza una scarpa perché, semplicemente, manco le era venuta in mente l’idea di non andare:

[…] Ho fatto il mio ingresso trionfale in classe accolta da un coro di: “Prof! Ma che ha fatto?”
Ed io: “Sono inciampata e ho una distorsione alla caviglia.”
E loro: “Prof, ma non è un po’ troppo scoperto, il suo piede?”
E io: “Sì, sembra anche a me, ma i medici mi hanno tassativamente proibito di stringere la fasciatura in una scarpa, in qualsiasi tipo di scarpa. Mi hanno detto che dovevo rimanere così.”
E Peppe, del primo banco: “Ma le diventeranno tutte le dita nere!”
E io: “Già.”