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Anni fa, fresca di separazione dal marito spagnolo, raccontai alla mia analista che avevo conosciuto un ufficiale dell’esercito, ne avevo lodato la divisa mimetica e lui, in seguito, me ne aveva regalato una uguale (o forse era proprio quella, boh) e poi io gli avevo dato appuntamento a Romolo e lui, guardandosi attorno, aveva commentato: “Che brutto posto, questo quartiere: deve essere pieno di delinquenti e drogati. Meno male che ho la pistola.”
Raccontavo questa cosa all’analista, insomma, divertitissima e molto presa dai particolari che confermavano l’antropologia militaresca della mia conquista, e lei sospirando esclamò: “Ma insomma: si rende conto di non avere la più pallida idea di cosa vuole da un uomo?”
La guardai stupita: a me sembrava che volere aneddoti da raccontare fosse sufficiente. Il mondo si fa serio quando meno te lo aspetti, pensai.

E oggi pensavo che forse dovrei amarli, gli uomini che mi attraversano la vita, e che invece raccontarli è molto più bello e che mi sarebbe piaciuto scrivere di Genova così, attraverso i miei genovesi che sembrano diversi gli uni dagli altri ma che in realtà sono tutti uguali, con i loro occhi chiari, il sentimentalismo che ne maschera una sostanziale aridità di cui si dispiacciono, la golosità vissuta con vergogna e la precisione con cui badano a non essere in debito, e se stanno da te cercano lavori da fare, lavatrici da aggiustare e lumi da appendere per compensare il fatto di non avere un conto di ristorante da pagare.
Mi piacciono.
Sono tutti molto bravi a intenerirmi, direi, ma hanno un modo un po’ filiale di volere essere amati e io non sono capace: non sono materna. Sono filiale pure io, e i rispettivi egoismi vanno in collisione.

Pensavo che ci saranno sempre, gli uomini nella mia vita: posso invecchiare, ingrassare, attraversare ogni debacle estetica, non importa. Ce n’è, ce ne sono. L’importante è non mettersi in testa che se ne vuole uno solo. Ed io, per mia fortuna, non corro pericolo. Con gli anni, il massimo che sono riuscita a raggiungere è la pazienza – la raffinatezza amorosa, se così si può dire – di volerne uno alla volta.

Alcuni li ho pure amati, quindi non è che parli di cose ignote: ben tre, ne ho amati. Cosa sarà, il tre per mille del totale?
Però è che è un po’ uno spreco amarli, drammatizzarli, prenderli sul serio e cercargli dentro chissà cosa, quando è tanto più sensato volergli bene.
Ed è così facile, poi.
Come si fa a non sorridere pensando agli uomini, all’uomo che c’è in giro al momento, a quelle loro espressioni, le pieghette attorno alla bocca, le piccole vanità, la generosità di sé che hanno pure i più tirchi? Sono belli, questo è ciò che hanno.

Guardarli abbastanza da poterli raccontare, tutti quanti.
In cambio, verso il vino e faccio la pasta. E offro morbidezza, a patto che non si cerchi in me un altruismo che non ho.
Perché non so sacrificare nemmeno un’unghia, ecco.
E non sprecarti a criticarmi: è lo stesso, tanto.