Mi sono svegliata senza avere idea di che ora fosse, avvolta nel mio sacco a pelo perché il letto della pensione non dava molto affidamento, al mio arrivo stanotte, né avevo ancora preso le misure alla fauna locale, e quando dico fauna mi riferisco a insetti e roditori, ovviamente, ché qui siamo tipi prudenti e ci guardiamo attorno, prima di coricarci nei paesi nuovi.

Mi sono svegliata e me la sono presa estremamente calma, nella penombra di questa stanza piena di legno scuro e linoleum, e pareti scrostate e zanzariere alla finestra e un delizioso giardinetto pieno di piante subito oltre l’uscio, ma ci ho messo un sacco prima di aprire la porta. Ho messo in ordine, spostato cose, gettato cartacce, messo in carica il cellulare che però non aveva neanche una tacchetta, boh, e diviso quattrini e fatto tutto molto piano, preparandomi mentalmente all’incontro con questa Asmara che, negli anni, è diventata un luogo mitologico nella mia immaginazione e mi sembra stranissimo esserci arrivata – già, sono ad Asmara, pazzesco – ché mi ero abituata a desiderarla e basta e invece sono qua, sto per andare a spasso per le vie di Asmara. Io, proprio io.

E’ esattamente come doveva essere, Asmara. Il cinema Impero subito dietro l’angolo, i caffè pieni di gente ai tavolini, colazione all’italiana riveduta all’africana, con la ciambella strafritta nell’olio anziché cotta al forno e con l’espresso più scuro e denso e amaro del nostro, mi piace di piu’. E il sole che penetra nelle ossa e te le scalda e il corpo che riprende vita, dopo l’esilio invernale, e la luce che è quella dove mi sento a casa io, ché il mio cervello vuole questa luce, questo sole e questa secchezza calda, e immediatamente mi accorgo di amarmi di più, di volermi fare del bene, di volere vivere a lungo.

Ho fatto tutto molto piano, pianissimo. Trovare il bar, scegliere un tavolino, sedermi, ordinare, fare colazione, accendermi la prima sigaretta. Piano, con prudenza. Ma me la sono sentita addosso lo stesso la febbre che saliva, la fronte calda. No, non mi sto ammalando. Non ci si ammala così in fretta, quando si cambia paese. E’ solo che io somatizzo parecchio, ed ero emozionata. Non ammalarti di emozione, prof. Calma e pragmatismo, c’è tempo per guardarsi attorno.

Itinerario da professoressa, la scuola italiana come prima tappa. Chiedo la strada agli scolari che sciamano ovunque, ché la differenza di fuso orario fa vivere me di mattina mentre loro sono già all’uscita da scuola e li riconosci per l’uniforme gialla col cammello nazionale stampato sul taschino, e sono gentili e mi aiutano, alcuni mi rispondono addirittura in italiano e cammino seguendo le indicazioni e poi un bimbetto – senza uniforme, senza scuola – mi chiede l’elemosina e io lo metto al lavoro, invece di dargliela, e chiedo indicazioni pure a lui. Verso il cinema Roma, giù da qui. C’è qualcosa di così tranquillo e serio, nella faccia di ‘sto bimbo, e di così enormemente dignitoso, mentre passa dal ruolo di mendicante a quello di indicatore di strade, che non resisto e glielo do, il soldino, anche se gli avevo già detto di no. Esagero pure. E non si dovrebbe, non con i bimbi. Mi sento in colpa, mentre lui si allontana contento come una Pasqua.

La scuola è chiusa, qua fanno la settimana corta. Non mi rimane che ammirarne il cancello, mentre penso alla mia vita e al perverso gioco delle porte che si aprono e si chiudono, lungo l’esistenza, e non sai mai quale dovresti prendere, quale avresti dovuto prendere. Bon, quella che ho davanti è chiusa anche fuor di metafora. Per il momento.

Le ragazze di Asmara sono una più bella dell’altra e sono ovunque, sono tantissime. Le musulmane velate e le cristiane in maniche corte, tante con canotta e treccine, tutte con l’aria fiera, la sensazione è che ci sia carattere, da queste parti. Il mix multireligioso mi fa pensare al Cairo di tanti anni fa, quando lo conobbi io. Quando l’aria era più leggera di adesso.
Vado alla Casa degli Italiani, altra tappa nell’immaginario dell’italiano ad Asmara, ed è un giardino con i tavolini fuori, gli ombrelloni e il capretto come piatto del giorno, fatto come lo faceva mia nonna. Col pepe nero passato nei taglietti, negli angolini. Poi la papaya, e quella da mia nonna non c’era. C’è un gruppo di turisti italiani e un unico connazionale con l’aria da residente, seduto con un’asmarina bellissima. E’ in piena manovra da corteggiamento, non è il caso di disturbarlo. Muoio dalla voglia di fare due chiacchiere con gli italiani di qui, però. Ma dove li prendo, dove sono? Sta’ a vedere che la scuola non riapre più fino a che parto, finisce che non li becco, e avrei tante cose da chiedergli.

Il cellulare continua a non avere tacchette. Mi spiegano che le Sim straniere non funzionano, in Eritrea, e che gli stranieri non residenti non possono comprare quelle locali. Il mio cellulare è un oggetto inutile, lo userò come orologio. E per farci le fotografie, certo.

Sera: cercavo l’Autan tra le lenzuola e l’ho trovato. Ho trovato anche uno scarrafoncello. Piccolo, per fortuna. L’ho pestato col libro e ne ho gettato a terra il cadavere, poi mi sono cosparsa di Autan. Ho fatto bene a portarlo, meno male.

Mi addormento pensando agli stranieri maschi che approdano a lavorare qui, tra tutte queste asmarine con il loro evidente, visibile talento da api regine. Non credo che sia facilissimo mantenere l’equilibrio.
Tornare deve essere difficile, per quelli che stanno qui.