Mi arrampico a Materdei con la missione di provare a fare ragionare una persona che mi è cara e che, di ragionare, non ne ha mai voluto sapere. La scovo in una casa del ‘700: nobiltà decaduta, la corona sulla targhetta d’ottone della porta, pavimenti, mobili e quadri antichi e rappezzati qua e là, il dialogo doloroso di sempre e ti sembra di ripetere un sempiterno copione che suona teatrale come non mai, in quel salotto dove la padrona di casa interviene per chiedere, ospitale: “Fulvietta, t’o faccio ‘nu cafè? E ppigliate ‘na pastarella” e le tue parole, che vorrebbero essere sensate, sono così lise dal troppo uso che ti suonano assurde come e più di quelle che vorresti confutare.

Fallimento, impotenza, Materdei. E adesso dove sono, dove devo andare, come si esce da Materdei? Mi indicano la metropolitana, la macchinetta dei biglietti è guasta, il controllore mi dice: “No, co’ cinque euro interi comprare il biglietto è impossibile! Passate senza biglietto, se volete, ma a vostro rischio e pericolo!” Passo, e una scala mobile lunghissima mi porta giù, verso le viscere della terra, e io che mi ripeto nella mente le parole di prima e ho il cuore pesante e la nausea e, mentre la scala mobile scende, passiamo sotto un arco da cui si affaccia, in rilievo, una faccia enorme di Pulcinella che mi osserva dall’alto. Scendo, coi brividi.

Ai treni, la pubblicità ti rassicura:

A Mergellina aspetto che termini una raffica di fuochi d’artificio, prima di attraversare la strada. Mi spiegano che è Santa Maria, “stanno sparanno ‘a Maronna“. Immagino la Madonna crivellata di colpi.

Mi meravigliano i vecchi, a Napoli: le loro giacche, le cravatte a righe, i nasi grandi e quelle rughe scavate, scolpite. Le stesse facce di quelli che erano vecchi quando io ero piccola. Eppure sono passati 30, 40 anni. Quelli che adesso ho davanti erano giovani, allora. Gli è venuta la stessa faccia dei loro padri e nonni, invecchiando. Hanno ereditato le stesse cravatte.

Raggiungo una pizzeria, ordino tutto quello che posso e che non mangio da dieci anni, e fumo, bevo birra, leggo, telefono, parlo a raffica, racconto, mangio.

A Napoli mangio in modo scomposto, bulimico.

Perché tutto, qui, è una madeleine. E perché non c’è, in tutto il mondo, una città altrettanto capace di spingermi a volermi del male.