Ho smesso di fumare.

Sono CINQUANTATRÉ giorni che non fumo. E questo dovrebbe essere il mio primo post da non fumatrice e se riesco ad arrivare fino in fondo senza accendermi una penna avrò centrato un obiettivo non da poco, ché scrivere senza fumare è la più dura delle prove. Ma non volevo parlare di questo. Volevo dire che me ne vado, parto tra due settimane. In realtà, se sono riuscita a smettere di fumare è perché devo stare bene per forza, visti i progetti in ballo. Non si viaggia con la bombola dell’ossigeno in valigia.

Parto, vado in America Latina e torno a studiare. Come scriveva Lorenza in un post che potrei appendere alla mia testiera del letto:

Un professore che non continua a studiare, è un professore a metà. Un professore che, pur desiderandolo, non può studiare, perché da insegnante è stato forzatamente trasformato in un ibrido, un ircocervo, un patetico incrocio fra un intrattenitore, un assistente sociale, un terapeuta della famiglia, un burocrate, non può non essere frustrato.

Vado a riprendere le redini di un po’ di cose che riguardano la mia formazione e il mio mestiere. Credo che vada fatto, a un certo punto. Insegnare prosciuga: o ti ricarichi, periodicamente, o ti spegni. O migliori o peggiori, di sicuro non resti uguale. E io mi stavo spegnendo, lo vedeva chiunque.

Ma non è nemmeno dei massimi sistemi della scuola, che voglio parlare. Il lavoro che vado a fare adesso parlerà per me, il modo in cui ritornerò all’insegnamento attivo, quando sarà, dirà se ho fatto bene. Scriverne su un blog non serve, non adesso.

Quello che mi serve è rendermi conto che io, proprio io, con i polmoni pieni di un’aria fresca che non conoscevo da quando avevo dodici anni, sto per partire e non ho ancora organizzato niente, ho una lista di cose importantissime da fare e sono qui che mi guardo i telefilm, invece, mentre l’aereo sta praticamente scaldando i motori e io penso a ‘sto trasloco e sbadiglio, ché le cose faticose mi fanno sbadigliare e cambiare continente è un po’ faticoso, devo ammetterlo.

Tutte ‘ste cose importanti richiederebbero dell’enfasi, suppongo, e io non ne ho voglia. Ho un’età, preferisco giocare.

Vado all’Avana, non so esattamente dove. Cercherò un alloggio un po’ fisso quando sarò là. Vivrò leggera, ché in aereo si possono portare solo venti chili, e quelli mi dovranno bastare almeno fino a Natale. Porto due o tre pantaloni, qualche maglietta, una penna. Un impermeabile, ché mi dicono che c’è il tifone. Mi piace fare ‘ste cose, mi sento nel mio brodo.

Mi chiedo se quest’investimento di vita e di studio riuscirà a curarmi, almeno un po’, dalla nostalgia d’Egitto che non mi passa mai. Certo che è una cura drastica, dai. Magari funziona. E, del resto, io sarei un’ispanista. Col cuore altrove, ma un’ispanista in fin dei conti. Andiamo a rinfrescarci la memoria.

Il blog, come al solito, viene con me. Linea permettendo, ché Cuba non brilla per la sua connessione, ma se sono riuscita a postare persino dall’Eritrea non sarà la Isla a sconfiggermi.

Bene. Ora che l’ho scritto qua dovrebbe cominciare a sembrarmi reale, tutto ciò.