E’ un’epoca dal linguaggio politico confuso, questa in cui l’ex ordinovista Miguel Martinez sposa le tesi di un giornalista di Rete 4, Alfredo Macchi, per ridicolizzare la rivoluzione egiziana come “Made in USA” e viene prontamente ripreso dal giovanotto che, durante tutta la rivoluzione suddetta, ha fatto il tifo per la repressione militare un giorno sì e l’altro pure, forte della raffinata analisi politica secondo cui “gli egiziani non saprebbero gestire manco un cesso, figuriamoci il proprio Stato“.

Ma vediamolo un po’ da vicino, questo apparente – molto apparente – Frankenstein ideologico creato dai due.

Miguel Martinez è uno che si è formato in gioventù all’interno di Ordine Nuovo e che poi ha trascorso quasi tutta la sua vita adulta all’interno di una setta, uscendone solo alla soglia dei quarant’anni. E che ha la curiosa virtù – figlia di tanta formazione, credo – di scrivere spesso cazzate sesquipedali che, a prima vista, paiono ragionamenti non privi di una certa intelligenza. “Uh, è vero!“, pensa uno alla prima lettura. “No, aspetta, ma che ha detto?“, pensa dopo un po’. E, se ha la pazienza di rileggere, si risponde: “Una cazzata che suonava bene“, nella migliore delle ipotesi.

Da quando raccontava che gli ostaggi italiani in Iraq sarebbero stati consegnati al Campo Antimperialista, presso cui militava un tempo, fino allo spacciare la “battaglia dei cammelli” in piazza Tahrir per “conflitto di classe”, Martinez ci ha regalato molte chicche. Vediamo quest’ultima.

1) Con tutto l’inchiostro che gli studiosi del pianeta hanno dedicato alla rivoluzione egiziana, solo il giornalista del Tg4 di Emilio Fede, secondo Martinez, ha fatto “qualcosa che non ho visto fare da altri: ha messo insieme l’esperienza diretta con l’analisi.

(Nella foto, Alfredo Macchi si prepara a ricevere il Pulitzer per la sua copertura dei fatti egiziani.)

2) Martinez mette in un unico calderone i fatti di Tunisia, Egitto, Libia e Siria e timbra il tutto con la definizione: “Rivolte di Facebook“. Così facendo, è il primo a fare propria la lettura più becera di detti eventi fatta dai media mainstream per poi passare ad analizzarla. Ciò che è successo nella realtà egiziana scompare, sul blog di Martinez, e rimane solo il racconto della TV a cui lui, fieramente, si oppone. Anni di lotte dei lavoratori, di scioperi, di movimenti organizzatisi nonostante la repressione che conosciamo diventano, nel racconto di Martinez, un logo in cui si mischiano la Pepsi e YouTube. I morti, i feriti, i detenuti a migliaia, vengono degradati a utili idioti del “ciberdominio“. Gli egiziani non hanno fatto la rivoluzione perché stremati – da anni – dalle ruberie e dalle umiliazioni del regime, ma perché strumentalizzati dalla Pepsi. Ok.

3) Martinez ammette, bontà sua, che l’Egitto di Mubarak era una cleptocrazia (anzi: cleptocrazia in grassetto, ché il Nostro, laureatosi da nonno, ha velleità frustrate da prof e ci tiene a sottolineare quelli che considera i termini salienti dei suoi scritti, come un insegnante del CEPU sottolineerebbe i punti chiave nelle dispense dei suoi allievi meno svegli). Ma avverte che “non è un caso”. Certo che non lo è, ma perché? Per precisa volontà degli USA, di Israele, di interessi occidentali? No! Perché gli “Stati Nazione da quelle parti sono una creazione artificiale che può stare in piedi solo grazie a livelli insopportabili di violenza.” Il discorso è povero (nel caso egiziano, poi, francamente improponibile) ma, soprattutto, esclude un’alternativa allo status quo. Se l’esistenza stessa degli Stati mediorientali presuppone la dittatura, non esiste alternativa possibile ai militari (come ritiene il nostro Sherif, golpista da divano) o – non mi viene in mente altro – al buon vecchio Califfato. Ricordiamo che il Martinez, oggi attivo collaboratore del CICAP , ha in schifo l’islam come religione ma nutre grande simpatia per l’islam politico radicale, baluardo antisistema di certo rossobrunismo – o brunismo tout court – nostrano e non solo.

4) Del resto, e un po’ da sempre, la protesta sociale, per Martinez, non è altro che “centomila persone che camminano sotto il sole reggendo cartelli“. Un ininfluente “film mentale della sinistra“. Ok, d’accordo. Ma, di nuovo, l’alternativa alla protesta pacifica qual è? La lotta armata? La Jihad violenta? La santa alleanza tra l’islam radicale e i rigurgiti neofascisti? Così, chiedo. Vorrei saperlo.
E torniamo al califfato, ovviamente. Alla soppressione degli Stati Nazione di cui parlavamo prima. Che dire: non è che mi scandalizzi. Potrei anche vederla pragmaticamente, se servisse a migliorare la vita di quei popoli. E’ che non mi sembra uno scenario auspicabile, il neo-califfato, né realistico. Ma è che sono dei romanticoni con il sangue degli altri, questi neofascisti nostrani.

5) La visione che Martinez ha dell’islam politico sta tutta in questa frase: “Allo stesso modo, è comprensibile che molti dirigenti di organizzazioni islamiche preferiscano farsi dare una mano per arrivare al potere, piuttosto che farsi arrestare o bombardare.” E tanti saluti ai Fratelli Musulmani che, per amor di verità, il loro bravo curriculum di arresti e piombo ce l’hanno, con buona pace dello spocchioso Martinez.  Lui, è evidente, preferisce le organizzazioni islamiche dure e pure.

Il discorso è vecchiotto:

Dobbiamo affrontare questa realtà una volta per tutte. Gli arabi sono ben lungi dal dare il meglio quando operano sotto forma di ‘stato nazionale’. Al soldato arabo può mancare la volontà necessaria a morire per una stupida bandiera. Sia nel caso dell’Iraq di Saddam che in quello dell’Egitto di Nasser, una volta cominciato un conflitto si manifesta subito un crescente divario tra il leader demagogico carismatico, assertivo e sopra le righe e un qualche inceppamento delle prestazioni sul campo di battaglia. […]

L’arabo vince esclusivamente quando combatte da musulmano, da credente. Diversamente dal superficiale soldato occidentale, che dà la vita per vuoti slogan creati dall’uomo, il musulmano darebbe la vita per una causa divina. Voglio dirlo apertamente: se c’è un’idea significativa dietro l’espressione “nazione araba”, quell’idea è l’Islam. Il musulmano prende ordini dall’Onnipotente.

L’ho già definito perdente, prima ancora che razzista, anni fa e non mi ripeterò.

In questi anni ci ha dato molto sorprese, “l’arabo”. Prima tra tutte quella di perdere il singolare e farci scoprire tutte le sue spiazzanti declinazioni al plurale. E, non ultima, quella di farci vedere, proprio in Egitto, il declino del potenziale rivoluzionario dell’islam radicale, travolto da una mobilitazione che non ha potuto controllare e sempre più ambiguo e venduto a interessi – lui sì – poco confessabili.

Sullo sfondo di ciò che di brutto e di bello accade in Medio Oriente, Salamelik e Kelebek mi appaiono come due vecchi nostalgici dei tempi che furono. Accomunati da uno strano disprezzo etnico verso il libero arbitrio dell’ “arabo”, dal rifiuto della loro complessità e da una visione di destra del mondo che, nel caso del primo, si ferma alla buona vecchia dittatura militare e, nel caso del secondo, si perde in visioni più romantiche e lontane, truci come le due spaventose donne in niqab che campeggiano sulla sua homepage.

Non è Frankenstein, la loro unione. E’ solo il fare assieme un pezzo della stessa strada, a destra, con uno che scende prima dell’altro.