I nicaraguensi mi sembrano diversissimi dai loro vicini guatemaltechi o messicani. Dai tratti meno indigeni e meno imperturbabili, più espressivi e pronti a ridere, più accesi. Non sono solo gentilissimi come i loro vicini del nord: è qualcosa in più, ti seducono. Deve essere un posto dove ci si innamora facilmente, il Nicaragua.

Naturalmente, questo è un popolo che ha fatto la rivoluzione. Oggi sono stata al Museo – se così lo si può chiamare – dei Martiri ed Eroi di Veracruz. E’ un’associazione di ex combattenti, più che altro, che però non hanno l’età dei nonni, come i nostri ex partigiani o i fenomenali vecchietti di Cuba. Sono ex combattenti sandinisti che sono miei coetanei o poco più vecchi, e ho chiesto al signore che mi faceva da guida: “Ma tu quanti anni avevi, allora?” e lui si è messo a ridere: “Ero un liceale, ho cominciato a far casino prestissimo.” Ero una ragazzina pure io, in quegli anni, e l’America era un posto dove i miei coetanei sparivano nelle carceri cilene o argentine o combattevano in Nicaragua. Ragazzini, e guardi le foto appese al muro di volti che riconosci, di destini crudelissimi che ancora ti sconvolgono, dopo tanti anni.

Abbiamo parlato per ore: è che quando gli ho detto che vivevo a Cuba si è emozionato, letteralmente, e si è messo a raccontarmi di tutto quello che i cubani avevano fatto per il Nicaragua, dei maestri e professori venuti a insegnare a leggere a gente che “non aveva mai avuto l’opportunità di prendere un libro in mano” e gli si sono inumiditi gli occhi e pure a me, e ci è mancato un pelo che ci mettessimo a piangere tutti e due, saremmo stati ridicolissimi e senza neanche l’attenuante di essere ubriachi, era pure mattina. Santo cielo, Cuba: più viaggio per il Centro America e più aumenta il rispetta che mi ispira.

Abbiamo pure riso, per fortuna. Gli ho chiesto dei rapporti dei sandinisti con la Chiesa e lui, sornione: “Dunque, distinguiamo: i nostri rapporti con Dio, per fortuna, sono sempre stati eccellenti. Che il Signore sia benedetto. Con la Chiesa, dipende. I Teologi della Liberazione erano con il popolo, ovviamente. Poi c’erano quelli che chiamiamo i Teologi della Non Liberazione, e dimmi tu che teologia è, ma come si fa. Che poi lo capisce chiunque, no, che Dio è sempre dalla parte del popolo? E invece loro no. Credevano di essere la Chiesa e invece erano contro il popolo, figurati.”
Mi racconta delle conquiste sociali ottenute dopo la rivoluzione – istruzione e sanità soprattutto, come è ovvio – svanite nei successivi 15 anni di neoliberismo e che adesso si cerca faticosamente di recuperare. “La sanità ora è gratis anche per gli stranieri, se ti senti male vai in ospedale e devi solo aspettare il tuo turno”, mi dice orgoglioso. “Ma non è giusto!”, esclamo io. “A Cuba noi stranieri dobbiamo essere assicurati, altrimenti paghiamo tutto. Mica possiamo pesare sulle finanze cubane!” “Eh, ma a Cuba hanno troppi problemi con l’embargo, non possono permettersi di essere generosi con tutti”, mi fa. Lo guardo. Il Nicaragua è, dopo Haiti, il paese più povero d’America. Cambio discorso.

Scopro che le armi, a Somoza, gliele dava Israele. Non lo sapevo ma, ovviamente, non ne sono sorpresa. Mi mostra una vecchia molotov: “Questa è l’arma per eccellenza contro l’oppressione.” “Assieme alle pietre”, dico io, che sto ancora pensando agli israeliani. Mi racconta di quando a Somoza, alla fine, venne negato di rifugiarsi negli USA: “C’era stata un’ondata di sdegno per l’omicidio, da parte delle guardie di Somoza, di un giornalista USA che aveva appena intervistato il comando sandinista, quindi il loro governo dovette fingere di vergognarsi e finalmente gli chiuse le porte. Figurati: quello che migliaia di morti nicaraguensi non erano riusciti a ottenere, lo ottenne un solo morto gringo. Il mondo va così.”

Mi racconta dei contras: “Facemmo l’errore di essere troppo generosi con i nemici, subito dopo la rivoluzione. Avremmo dovuto fare come i cubani ed essere intransigenti, invece cercammo la strada della riconciliazione troppo presto. E loro, con i soldi degli USA e l’appoggio di quegli [omissis] degli honduregni, ne approfittarono per riorganizzarsi.” Mi parla dei morti, delle torture, delle donne “oltraggiate”, come dice lui. C’è un vecchio carcere nei dintorni che potrei visitare. “Ma non di pomeriggio: quando arriva la sera i taxisti non amano andare in quella zona, è pericoloso.” “Ecco”, esclamo io, “com’è la sicurezza qui? Mi pare meglio che a nord o mi sbaglio?” “Non c’è paragone!” Mi spiega che durante l’epoca neoliberista il narcotraffico era arrivato anche qua, e che ancora adesso continuano ad avere un problema di ragazzini che sniffano colla e che lo Stato cerca di disintossicare. Ma lo vedo anch’io che qua siamo su un altro pianeta rispetto ai paesi più a nord. Basta leggere i giornali. Non sarà un’oasi di tranquillità, ma è comunque un posto normale. La violenza folle, demente, che c’è altrove, qui non c’è.

“E con i nemici come è andata a finire, come sono i rapporti? Come siete messi, a riconciliazione nazionale?” Sorride: “Un nostro comandante che è morto l’anno scorso – l’ultimo della primissima generazione – scrisse una poesia*, su quella che sarebbe stata la nostra vendetta.” E me la recita a memoria, lì, tra le foto di tutti ‘sti ragazzi morti appese alle pareti.

E poi niente, sono uscita di lì e c’era la città in festa, oggi si celebra l’Assunzione. E’ una festa in cui per tutta la città c’è qualcuno che grida: “Come mai tanta allegria?” e tutti gli rispondono: “E’ per l’Assunzione di Maria!” Si chiama la festa delle grida, appunto, sono tutti lì a sgolarsi. E poi fanno degli altari, nei portoni e nei negozi, con la Vergine e un vulcano davanti in ricordo di un’eruzione da cui vennero salvati, e i bambini si fermano a cantarci davanti e in cambio ricevono le caramelle. Pure io mi ci sono fermata davanti, e hanno dato le caramelle pure a me. Ne sto mangiando una adesso, è alla mela. Sono stata fortunata: in piazza della Cattedrale c’era una fila di gente lunghissima, tutti in coda per le loro caramelle. Tutti, bambini, adulti e vecchini. E io lì, con le mani piene.

(*La mia vendetta personale sarà il diritto / dei tuoi figli alla scuola e ai fiori. / La mia vendetta personale sarà consegnarti / questo canto fiorito senza timori. / La mia vendetta personale sarà mostrarti / la bontà che c’è negli occhi del mio popolo, / che è sempre stato implacabile nella lotta / e il più fermo e generoso nella vittoria. / Perché fu il popolo a odiarti di più / quando il canto fu linguaggio di violenza / ma è il popolo che oggi, sotto la pelle / tiene in alto il suo cuore rosso e nero. / La mia vendetta personale sarà dirti / “buongiorno” senza mendicanti nelle strade; / quando invece di incarcerarti ti proporrò / di scacciare la tristezza dai tuoi occhi. / Quando tu, applicatore di tortura / non riuscirai più a alzare lo sguardo / la mia vendetta personale sarà mostrarti / queste mani che un tempo maltrattasti / senza ottenere che abbandonassero la tenerezza.)