Il tassista che mi ha accompagnato al Museo Militare di San Salvador è un’anima candida. Si improvvisa guida turistica, vorrebbe farmi visitare lo zoo e vedermi fotografare le facciate delle chiese e lo intristisce la mia mancanza di interesse per ciò che propone. Parlare con lui della guerra civile mi deprime, non ne sa nulla e ancora meno ne vuole sapere. “Quindi per te le ragioni della guerriglia valgono quanto quelle degli squadroni della morte?”, gli domando, mentre tra me e me mi chiedo se non sia il caso di cambiare taxi. “Ma io ero un bambino, avevo paura!”, risponde lui quasi urlando, e gli si stampa in faccia una smorfia di malessere che mi fa vergognare di me stessa e dei miei pensieri. Rimango con lui, continuiamo a girare per la città. All’inizio di un vialone grigio mi fa: “Ecco, qui comincia il territorio della Mara Salvatruchas.”
Le maras sono la moderna piaga del Centro America e la dimostrazione definitiva della circolarità delle disgrazie di questa terra: esplosero come fenomeno negli Stati Uniti con l’arrivo dei rifugiati dalle guerre dell’epoca (quelle che gli USA finanziavano e armavano, sì), negli anni ’80. In origine erano gruppi di giovani latinos che si difendevano dalle aggressioni degli anglo, poi passarono al controllo del territorio e alla delinquenza. I “Salvatruchas”, il cui nome deriva dal Salvador, furono i protagonisti delle sollevazioni popolari del ’92 a Los Angeles. Nel 1996, il Congresso USA approvò una legge per cui ogni straniero condannato a più di un anno di prigione doveva essere deportato immediatamente nel proprio paese d’origine. In questo modo, paesi piccoli e poveri – Salvador, Honduras, Guatemala – che a stento si stavano risollevando dai loro sanguinosi conflitti interni, si videro arrivare migliaia di delinquenti cresciuti e formati negli USA che, ovviamente, trovarono nella povertà e nella corruzione locale il terreno ideale per espandersi fino a diventare, letteralmente, un intoccabile stato nello stato. Al sistema di estorsioni, rapine e rapimenti si aggiunse presto il narcotraffico, oggi principale fonte di reddito per le bande. E, con il narcotraffico e la diffusione di coca e affini, il livello della violenza esercitata dalle bande è cresciuto fino a diventare – non trovo altro termine – demenziale.
Qui tutti pagano una tangente alle bande, mi spiega il tassista. Negozianti, conducenti di autobus, gli stessi tassisti, chiunque lavori. Mi guardo attorno sconfortata, con ancora addosso il malessere della visita ai militari: “Insomma, a questo è servito? Tanto sangue, oltre un decennio di guerra, stragi e massacri per costruire questo paese qua? Miseria, analfabetismo, denutrizione, filo spinato, terrore, criminalità, questo è tutto quello che rimane?” E lui: “No, appunto, non è servito a niente. La generazione di allora, per cambiarsi la vita andava sui monti a combattere; questi sono nel narcotraffico. Prima avevano gli ideali, ora credono solo nel denaro.” Lo guardo, l’analogia mi colpisce. Le maras come nuova modalità di lotta di classe. Questo paese è una miniera di spunti per deprimersi.
“Ma vuoi vedere chi ha veramente il potere, e parlo di potere vero e di soldi illimitati, in questo paese? Ora te lo mostro.” Qualche minuto di macchina e siamo qua:
Villa Bautista. “Che roba è?” “E’ il regno dell’uomo più ricco e potente di tutto il Salvador.” La proprietà prende tutto l’isolato. Ci sono edifici, c’è una chiesa, c’è la scuola, c’è un’emittente radio, Radio Bautista 89,7. “La tua risposta è qui”, è il loro motto. Gente in uniforme ovunque, le donne con la gonna blu al polpaccio e gli uomini in camicia e cravatta. Al posto delle croci che mi aspetterei, ci sono coroncine e stelle di Davide fianco a fianco in ogni angolo, e la scritta all’entrata della chiesa recita: Tabernacolo biblico battista “Amici di Israele”, 1977.
Che brutta data, madonna. Questi devono essere di una destra che più estrema non si può – ma finisce mai, la destra estrema, in Salvador? – ma non capisco tutta ‘sta devozione per Israele. Il tassista non me lo sa spiegare. Io mi giro e, alle mie spalle, c’è un’altra targa per un’altra curiosa combriccola:
Avevo già letto da qualche parte che diversi dittatori centroamericani avevano appoggiato chiese evangeliche e sette varie in modo da indebolire la chiesa cattolica, durante gli anni della Teologia della Liberazione. Intanto, il tassista parla, si sfoga, e racconta – ormai dello zoo e delle basiliche non gliene frega più nulla manco a lui – ed è arrabbiato, non è più il pacioso e beato ignorante dell’inizio del nostro giro. E mi racconta che possiede mezzo Salvador, ‘sto Tabernacolo biblico degli amici di Israele, e poi mi parla di D’Aubuisson, che è morto nel suo letto senza che nessuno gli torcesse un capello, e del figlio che continua bellamente a fare politica nello stesso partito e dell’altro figlio che è stato ucciso per cose di narcotraffico ed è che, come ovunque, estrema destra e delinquenza esercitano un’irresistibile attrazione reciproca, l’una non esiste senza l’altra.
Il Salvador ha sempre votato a destra, dopo la guerra. Solo adesso, per la prima volta, la sinistra è arrivata al governo, ed è una delusione generale. Corrotti, inefficienti. “Hanno dimenticato da dove vengono”. Alle prossime elezioni perderanno, mi dicono. C’è troppa delinquenza, la gente ha paura, ci vuole mano ferma. Destra, dunque. Il Salvador è in loop e non sembra che ne possa mai uscire.
Questo è un paese che ti maciulla emotivamente. L’ho scritto altrove: era dai tempi della Palestina che non sentivo tanta amarezza durante un viaggio.
Cerco di capire cosa abbiano in comune, i due paesi, ed è il senso di sconfitta totale, senza speranza, che trasmettono. In entrambi i paesi si è combattuto – o ancora si combatte – per una causa sacrosanta, con rapporti di forza totalmente sbilanciati. In entrambi i paesi c’era un popolo da una parte e un esercito dall’altra. In entrambi i paesi, generazioni intere sono state decimate: dicono che in Salvador manchino gli uomini attorno ai cinquant’anni, sono morti. Soprattutto, tanto in Salvador come in Palestina, a essere uccisi sono stati soprattutto i migliori: i più intelligenti, i più colti, i più brillanti. Quelli che avrebbero dovuto costituire le future classi dirigenti. I più pericolosi, quindi. E, sia lì che qui, è stato tutto per niente. Rimane solo l’essere depauperati, tanto umanamente che delle risorse, e nessuna speranza futura. E, tutto attorno, l’ipocrisia internazionale.
Tonnellate di ipocrisia internazionale, per decenni.
Salvador e Palestina, guarda quante cose hanno in comune. Non ne avevo idea, pensa.
La sera, vado a mangiare nel ristorante del giorno prima, l’unico che c’è entro un isolato dall’albergo. Un isolato fatto di filo spinato e cellule fotoelettriche che si accendono quando passi. Come la sera prima, tanta bella gente all’interno e tante macchine parcheggiate fuori con dei tizi robusti – autisti, guardie del corpo? – che ci guardano dall’esterno, come dei pitbull che vegliano sul nostro pasto. Come la sera prima, ottima cucina, e pare uno sberleffo, un’umiliazione: “Di giorno vedrai tutto il male possibile ma, la sera, mangerai splendidamente, cara turista.” Mangio e ho vergogna.
Perdo tempo, penso, rifletto. Passa un’ora circa. Quando esco, sono le nove. E, davanti all’entrata, c’è la signora delle reception del mio albergo che mi saluta con un sorriso. “E’ qui per caso?”, chiedo io, incerta. “No, ho visto che tardava e sono venuta per accompagnarla dentro, a quest’ora è pericoloso camminare da sole.” Ah, ecco. Certo.
Sarà meglio ripartire, penso io. Se rimango in questo paese ancora un giorno, mi ammalo.
(P.S. A proposito di chi vince e chi perde, leggo solo ora questo bel post di Carotenuto sul Cile. Direi che viene a pennello.)
Da San Salvador a Città del Guatemala | Haramlik
[…] al contenuto I linkHaramlik vs. Magdi Allam: la vicenda « Salvador (fine) Da San Salvador a Città del Guatemala Scritto da lia | Pubblicato: 16 settembre […]