Il monumento alle vittime dei massacri e degli omicidi compiuti in Salvador da militari e paramilitari sembra, come spiegavo altrove, sconosciuto ai più. In compenso, tutti sanno dov’è il museo di Storia Militare: il taxi ti ci porta senza esitazioni e, dentro, è pieno di ragazzini e ragazzine in visita.

Già dalla prima sala in cui entro, le cose vengono messe bene in chiaro. Il lessico adoperato non lascia spazio a nessun dubbio:

Accanto a ogni arma c’è il paese di fabbricazione, che è sempre lo stesso: EEUU, Estados Unidos.

Sono diverse sale, dedicate ognuna a un militare importante o a momenti significativi della storia militare del paese. La sala più antica è dedicata all’ex dittatore Maximiliano Hernández Martínez.
Wikipedia lo presenta come un “ardente fascista”, responsabile di avere stroncato l’insurrezione contadina del 1932 massacrando decine di migliaia di persone, normalmente indigeni che, prima di essere uccisi, venivano obbligati a scavare le loro stesse tombe. La targa posta all’entrata della sala a lui dedicata, invece, lo presenta così: “[…] uomo forte e onesto che, oltre a condurre il paese alla solvibilità economica durante la sua presidenza, contenne con decisione e patriottismo la minaccia comunista che gravò sul paese nel 1932.

Ma perché andare così indietro nel tempo quando c’è tanto da imparare della storia più recente? E così, tra i tanti militari a cui il percorso ti invita a rendere omaggio, vengo catturata in modo particolare – e, grazie a Dio, solo metaforico – dal prode Domingo Monterrosa Barrios che solo il giorno prima avevo ricordato qui sul blog come responsabile della strage de El Mozote, il “più cruento misfatto della storia recente dell’America latina, considerato il peggior eccidio compiuto nell’intero continente americano contro la popolazione civile.” E non è che ne abbia visti pochi, questo continente, di massacri.
Ricordo di nuovo brevemente cosa accadde:

Un corpo d’elite dell’esercito salvadoregno, il battaglione Atlacatl comandato da Domingo Monterrosa, invade il villaggio di El Mozote, circonda le abitazioni, separa gli abitanti in gruppi: uomini, donne e bambini. Li tortura, poi lo sterminio colpisce tutti indiscriminatamente: prima gli uomini, poi le donne infine i bambini. Alla fine si conteranno circa 1200 morti, tutti civili inermi. Il battaglione Atlacatl lascia la sua firma sul posto in un biglietto in cui insulta gli abitanti del villaggio chiamandoli “figli di puttana” ed accusandoli di dare rifugio ed ospitalità alla guerriglia del Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional.

Lo stesso battaglione Atlacatl, in seguito, si renderà protagonista di altre prodezze dello stesso genere:

Documenti declassificati dal governo statunitense illustrano chiaramente che i soldati del battaglione Atlacatl vennero addestrati ed armati con fucili M-16 nel 1981 dai militari statunitensi nel Salvador. Il sostegno U.S.A. al battaglione Atlacatl continuerà almeno fino al 1989, data del massacro della Universidad Centroamericana “José Simeón Cañas” (U.C.A.). Qui il battaglione Atlacatl fucilò il rettore, padre Ignacio Ellacuría, e altri 5 gesuiti, più la moglie e la figlia del guardiano dell’Università.

Nel museo, il colonnello Monterrosa, assieme al suo braccio destro Armando Azmitia Melara e al battaglione tutto, sono onorati come eroi. Sfiorando addirittura il culto della personalità, direi:

Monterrosa e Azmitia Melara. Sopra, la scritta: I nostri eroi!!!.

E, come dicevo, ragazzetti ovunque, il museo ne era pieno. Scolaresche, bimbe che si fanno le foto davanti alle immagini dei suddetti eroi, ragazzini che si infiammano di orgoglio patriottico e così via. Rifletto sul fatto che i messaggi non hanno affatto bisogno di essere giusti, per arrivare a destinazione. E’ sufficiente che siano chiari, e quelli che vedo decisamente lo sono.

Ma vediamo ancora un po’ di foto, quelle che ci ricordano il protagonismo degli USA:

Mina made in USA

Plagio di simbolo o lapsus freudiano?

Foto di tutti i presidenti USA

Foto di famiglia

…e chicca finale.

Una a ‘sto punto crede di avere visto tutto, no? Mi si era pure scaricato il cellulare, a forza di fare foto che mi aiutassero a credere ai miei occhi. E non mi sentivo neanche tanto bene, devo dire la verità. Ché, sul blog, uno vede le immagini e basta. Ma lì, le immagini le vedevi mentre eri circondata dai militari in carne e ossa e, ripeto, da tutti ‘sti salvadoregni di domani in gita scolastica. Era una cosa molto faticosa da sostenere, specie se consideri che faccio la prof. Avevo voglia di andare a dormire, non ne potevo più. E, invece, mi sono ritrovata davanti alla sala dedicata agli Accordi di Pace del 1992 che posero finalmente fine alla guerra civile.
“Finalmente!”, penso io, assetata di qualcosa di bello.
Entro nella sala. C’è l’ultima pagina dell’accordo esposta in una teca, con le firme: c’è quella di Boutros-Ghali e sopra ci sono quelle dei membri del governo presieduto da Alfredo Cristiani e quelle del FMLN. Per quest’ultimo, si riconosce la firma di Schafik Handal e poi, tra le altre, quelle di ben tre guerrigliere donne. Colma di orgoglio femminista mi guardo attorno per vedere se le riconosco tra le fotografie… ehi, un momento. Dove sono le loro fotografie?

Non ci sono.
Nella sala del museo dedicata agli accordi che hanno messo fine a dodici anni di guerra civile in Salvador, ci sono foto e ritratti di tutti tranne che di coloro con cui si è fatta la pace.
Alle spalle della teca con il documento, due giganteschi ritratti occupano l’intera parete: uno è del presidente Cristiani, che governava all’epoca, l’altro è di Napoleón Duarte che, nel 1992, era addirittura morto.Tra le decine di altre foto che occupano le rimanenti pareti, non una – ripeto: nemmeno una – testimonia la presenza di coloro che, quegli accordi, li hanno firmati.

All’inizio lo domando, incredula, a due ragazzi che sono nella sala con me: “Scusate, ma perché quelli del FMLN non appaiono nelle foto?”. Mi guardano perplessi. “Voglio dire: in questi casi c’è sempre la foto dei due ex nemici che si stringono la mano, no? Perché qui non c’è?” insisto io, che mi sto pure incazzando. E loro: “Uh, è vero…”

Cerco di far riprendere vita al mio cellulare ma non c’è niente da fare, è completamente scarico. Devo rinunciare a fare la foto alle foto mancanti. Guardo il ritrattone di Cristiani. Guardo Duarte buonanima. Guardo gli inutili dignitari, gli ignoti lacchè, la massa inutile delle inutili fotografie che imbrattano le pareti e mi chiedo dove mai le troverò, le foto delle donne che firmarono in nome del Frente, e mi pare una cosa così ingiusta che mi si contorce lo stomaco e finisce che vado dal militare che è là fuori e chiedo spiegazioni a lui: “Le foto di quelli con cui avete fatto pace, perché non ci sono?”. “Boh, non ci sono”, dice lui. “Be’, è molto insolito che ci sia una pace senza che appaia il nemico con cui la si è fatta”, dico io. Lui ride.

Poi niente, me ne vado. Satura di museo, di militari, di assurdità. Il tassista, che mi ha accompagnato tutto il tempo, era lì che scuoteva la testa: “Effettivamente, sa che non ci avevo fatto caso? E’ strano che manchino le foto del FMLN, dovrebbero esserci…”
Non ci aveva fatto caso. Mica mi stupisce, povera anima. Mi avrebbe stupito il contrario.