Tutto ciò che so sul funzionamento delle liste d’attesa dei bus cubani l’ho imparato dal film Lista d’attesa e non è molto, ma mi lascio portare dalla corrente e dalle indicazioni dei cubani di buon cuore che, dopo aver visto che effettivamente ho il diritto di viaggiare con loro, mi indicano che devo andare di qua e di là e fare quella e quell’altra fila. Il bigliettaio di Santa Clara mi dice che ho il numero 74 nella lista. Ma che passeranno altri bus, prima di quello che voglio prendere io, e che quindi il mio numero migliorerà, sempre che io sia lì per prenotarmi di nuovo ogni volta che la lista verrà rifatta. Quando lo guardo con gli occhi incrociati, sconfitta all’idea di stare qui a prenotarmi per sempre dopo ogni partenza di pullman di cui ignoro l’orario d’arrivo, si impietosisce e mi dice che lo farà lui per me. Lo ringrazio, gioisco, torno la mattina dopo e sono la prima della lista. Parto, felice.
Da Santa Clara a Camagüey sono circa sei ore di viaggio. Il pullman è cinese, a giudicare dalle scritte, e lo trovo più comodo dei Viazul per turisti, noti per la temperatura omicida della loro aria condizionata. Io viaggio benone con l’aria fresca che mi arriva dal finestrino e sono contenta. Ho portato dall’Italia un po’ di scatolette di carne, sgombri e tonno in scatola al naturale – ormai lo conosco, il cibo cubano che si trova per strada, e non mi frega più nei miei propositi di dimagrimento –e mi faccio pure la mia merendina. Poi l’autista si ferma, viene al centro del bus e chiede ai passeggeri: “Che facciamo? Tiriamo dritto o ci fermiamo a mangiare per strada? Però dobbiamo essere tutti d’accordo, qualsiasi cosa decidiate!” La democrazia diretta dei miei compagni di viaggio si esprime nella decisione di proseguire. All’autista un po’ dispiace, si nota. Io sono sempre più fiera della mia carne in scatola.
All’arrivo a Camagüey, di nuovo il minuetto della straniera che non sta al suo posto. Vado subito alla biglietteria per cubani a prenotare per tempo il bus per la prossima tappa, Las Tunas. E’ affollata di gente e tutti mi dicono che la mia biglietteria è l’altra, quella in valuta pesante. Esibisco la mia solita carta d’identità cubana, ricevo i soliti sguardi perplessi dalla folla e dal bigliettaio e, finalmente, vengo accettata. Solo per sentirmi dire che il bus per domani ha ancora posti liberi e non prevede lista d’attesa, ma devo venire a fare il biglietto più tardi. Dopo le nove di sera. Ok.
Camagüey è stata recentemente dichiarata Patrimonio dell’Umanità e deve avere ricevuto una pioggia di denaro, perché la prima passeggiata nel centro storico mi colpisce parecchio: edifici rimessi a nuovo, locali in CUC appena inaugurati, vetrine colme di merce. Un altro mondo, rispetto a Santa Clara.Passo davanti a una bella vineria chamata Bodegón Don Cayetano che avrebbe poco da invidiare a un analogo bodegón fighetto di Madrid, se non fosse che non servono il vino a bicchiere – suppongo che non ci sia abbastanza domanda – e devi comprare la bottiglia intera. Ripiego su un succo senza zucchero a cui aggiungerò il mio dolcificante, in un patetico tentativo di renderlo dietetico.
Camagüey è una città che ha trascorso buona parte della sua storia a difendersi dai pirati: Morgan ne ha fatte di tutti i colori, da queste parti, e il centro storico è un immenso labirinto di viuzze pensate allo scopo di disorientare i forestieri. Mentre si perdevano tra i vicoli, tuttavia, i pirati devono avere lasciato non poca discendenza e parecchio patrimonio genetico, giacché la città ha fama di roccaforte dei cacciatori di turisti, o jineteros che dir si voglia. In questione di minuti, mi imbatto nel mio.
E’ seduto in fondo al Bodegón e, a prima vista, sembra un turista alle prese col suo mojito. Si sposta al bancone, dove sono appollaiata io, e comincia un discretissimo gioco di sguardi: io sono incuriosita nell’accorgermi che è cubano, nonostante l’aria danarosa da europeo. Lui mi lancia qualche occhiata apparentemente casuale ma, fondamentalmente, gioca col suo telefonino. Scrive qualcosa. E poi lo fa scivolare sul bancone, verso di me. Il messaggio dice: “Eres muy atractiva. Vamos a tomar algo juntos?” No, gracias, gli dico restituendogli il telefono. So fare una faccia molto seria, quando voglio, e lui non insiste. Ma un jinetero così non lo avevo ancora mai incontrato: più sui quaranta che sui trenta, senza la solita aria da ragazzino e, che dio mi perdoni, un pezzo di manzo di tutto rispetto. Muscoli, ovunque si posi il mio sguardo. Aria seria, solida. Bellissimo esemplare di maschio adulto. Una può anche vacillare, per un secondo.
L’ho scritto altre volte: sono cresciuta figlia prediletta di papà e una delle conseguenze che ciò ha avuto sulla mia psiche è che la mia idea del sesso prevede, necessariamente, che la cena mi sia offerta. Non ne faccio una questione morale, ma di semplice immaginario erotico. Posso dare dei soldi a un amico ma non posso pagare un uomo. Questa volta, ti dirò, un po’ mi dispiace.
Lui si rimette a smanettare col suo telefono e, dopo un po’, appare una ragazza cubana evidentemente convocata via sms. Ha la metà dei miei anni e un terzo meno dei suoi: probabilmente vuole dimostrare qualcosa, il manzone rifiutato. Chiacchierano e, ogni tanto, lui controlla se sono gelosa. Non lo sono. Questo centro storico benedetto dall’Unesco è ancora tutto da scoprire e la mia bibbia di questo viaggio, il libro di Miller, dice che il posto dove andare è a qualche isolato da qui, in un angolo della piazza Agromonte. El Cambio, si chiama. Mi inoltro tra le case color pastello e lo raggiungo.
A El Cambio mi sento ancora più carne turistica che alla vineria, bersagliata dalle occhiate dei locali, ed è l’ultima cosa che vorrei essere. Mi arrampico sul mio sgabellone, mi appoggio al bancone, chiedo un rum liscio e faccio l’aria truce. Il mio vicino di sgabello mi porge il suo rum per un brindisi. La mia aria truce peggiora. Il barista mi chiede cosa ne penso di Camagüey e io, che ormai ho il cipiglio di un bufalo, gli rispondo che mi pare un posto difficile per noi stranieri. E lui mi fa: “Ma abbi pazienza: tu arrivi qui, da sola, ti piazzi direttamente al bancone con una faccia severissima, chiedi da bere forte e tiri fuori un sigaro. E’ naturale che susciti curiosità!” Lo guardo e le mie difese vacillano: non avevo visto la situazione da questo punto di vista. Sta’ a vedere che hanno ragione loro. E poi, niente: passerò la serata a chiacchierare con un mulatto laureato in pedagogia e completamente astemio che non accetterà neanche un succo di frutta. La conversazione sarà tra le sue lamentele sul sistema cubano delle retribuzioni e le mie considerazioni su come, secondo me, i cubani abbiano poco da lamentarsi rispetto agli abitanti dei paesi circostanti. Mi ascolta con attenzione. E’ molto cubano, del resto, avere sentimenti ambivalenti tra le lamentele per la mancanza di soldi e l’orgoglio per ciò che la rivoluzione ha comunque ottenuto. Ci vuole poco a tirarlo fuori, al di là delle lagnanze che ci si aspetta che gli stranieri vogliano sentire. Poi, certo: questa cosa delle retribuzioni è un problema reale, in una situazione in cui un cardiochirurgo guadagna meno di un taxista che lavora coi turisti. Ma è lo stesso, identico problema che c’è anche in Egitto, che non è esattamente una roccaforte del comunismo mondiale. Per dire. La grossa differenza è che è molto meglio essere cubano che egiziano, se ti serve un cardiochirurgo.
Camagüey mi pare comunque una piccola Avana, e io ho voglia di campagna e di paesotti. L’indomani prendo il bus per la sperduta, polverosa Las Tunas. Che, scoprirò, è un posto dove ci si sente a proprio agio, come a Santa Clara o persino di più.
ancoraaaaa