Nessuno è più nostalgico di un cubano che vive all’estero. Quelli che affollano l’aereo su cui viaggio si agitano sempre di più, man mano che ci avviciniamo all’Avana e, dai finestrini dell’aereo, si cominciano a vedere mare e Antille. Un ragazzo che vive a Padova racconta le sue sofferenze a voce altissima: “No puedo, è che non ne posso più dell’Italia!” E poi, imitando la parlata italiana: “Sono staaaanco, sono stressaaaato, sempre lavoooro, non mi tira il mandriiiillo!”. Il mandrillo? Il suo amico spiega che le italiane sono dure, insensibili: “Le prendi dai capelli e non urlano”. Io ascolto cercando di passare inosservata per non imbarazzarli, un po’ perpessa per l’immaginario cubano per le metafore. Poi atterriamo e la mia vicina di posto scoppia direttamente a piangere. “E’ che è il mio paese, capisci? La mia terra!”. Le passo un kleenex. E ben tornata a Cuba, cara me. Stavolta non all’Avana ma a Santa Clara, prossimo scalo dell’aereo, ché è tempo di andare a conoscere l’Oriente cubano e partirò da lì.


La piazza principale di Santa Clara mette allegria. E’ piena di bambini e di carretti tirati da montoni dalle corna inquietanti. Ci sono famiglie, c’è lo struscio, ci sono gli strumenti musicali di un’orchestrina in un angolo. E finisco subito davanti al bar dove bisogna capitare, la “Marquesina”. Grandi porte di legno spalancate su uno spiazzo, qualche tavolino fuori, il solito bellissimo e consunto bancone di legno scuro e gli sgabelli vecchi e funzionali. Chiedo al barista se ha una presa per ricaricare il cellulare, scarico dopo tredici ore di volo. “La presa ce l’ho, quello che non ho è l’elettricità”, mi dice. Ah, ecco. Bentornata a Cuba, come dicevo.

Passo il pomeriggio godendomi il sole, felicemente priva di comunicazioni con il resto del mondo, sentendomi socievole e in pace con l’universo. Attacco bottone con una bella torinese che vive qui per amore di un cubano e passiamo la serata a chiacchierare, mentre attorno si fa sempre più buio e l’elettricità non torna. Poi chiudono, ci cacciano e io raggiungo la mia casa particular, fischiettando. Ho deciso che Santa Clara mi piace, moltissimo.

La giornata successiva a cosa la vuoi dedicare, se non al Che.


La piazza dedicata a Che Guevara è enorme. Compro dei pomodori che mangerò a morsi, in un baracchino all’angolo, e mi siedo sotto l’enorme statua di lui che imbraccia un fucile. Scolpite nella pietra ci sono delle frasi e, soprattutto, c’è la lettera che il Che scrisse a Fidel quando decise di rinunciare alla sua carica di ministro, e persino alla cittadinanza cubana, per andare a combattere altrove senza coinvolgere l’Isola nella sua scelta. Il cielo è coperto da nuvoloni neri e ogni tanto cade un po’ di pioggia sottile, non mi dà fastidio. Dall’altra parte del monumento, sotto la struttura, ci sono un piccolo museo e il mausoleo che raccoglie i suoi resti.

Per entrare non si paga nulla, nessuno ti chiede soldi a nessun titolo ed è proibito fare fotografie. E’ un luogo di raccoglimento, non di turismo. Pare che l’entrata sia proibita ai cittadini USA – il Che venne ucciso per ordine degli Stati Uniti – ma nessuno mi chiede i documenti. Non che io sembri una yankee, comunque.

Il museo è un semplice omaggio a lui, Ernesto Guevara, guerrigliero e icona, morto prima di compiere quarant’anni. Ci sono i quaderni della sua infanzia, arrivati dall’Argentina in cui nacque. Le pagelle, da cui la prof che è in me scopre che andava malissimo in Calligrafia, così così in Educazione Fisica – era asmatico – e molto bene in Scienze. Per non parlare della Storia, in cui aveva la media del nove. C’è la sua laurea in medicina, l’apparecchietto per l’asma con cui andava in giro, il camice da medico, gli strumenti da dentista che si portò dietro nella Sierra Maestra. C’è la sua pistola. Qualche fucile. L’uniforme militare e il mitico basco immortalato nella fotografia di Korda, con la stellina che rappresenta il suo grado di Comandante.

Ciò che sorprende, degli oggetti che osservo – una penna a sfera, un’agenda che serve da diario, una radiolina, un orologio – è che non sono lontani nel tempo. Sono cose che chi ha la mia età ha visto in giro, del tutto simili a quelle che hanno fatto parte della mia stessa quotidianità. La storia dell’America Latina è spesso fatta di cose successe da poco. Qui siamo tra Elvis e i Beatles, direi.

Il mausoleo vero e proprio è piccolo, discreto, nuovissimo. Venne costruito nel 1996, poco dopo che i resti del Che fossero rinvenuti in una fossa comune in Bolivia e identificati dalla mancanza delle mani, tagliate per ordine dell’allora presidente della Bolivia e inviate in Argentina per verificarne le impronte digitali. Le spoglie arrivarono qui nel 1997. Durante la cerimonia, Fidel disse: “Non stiamo dicendo addio al Che, mentre lo seppelliamo. Lo stiamo ricevendo. Qui, a casa sua”.

Lo spazio è ricoperto di legno, in penombra. La parete di fronte a me è suddivisa in una trentina di blocchi di granito e su ognuno c’è il bassorilievo dei volti della trentina di guerriglieri sepolti con lui, tra cui sei boliviani. Davanti a ogni lapide, un unico garofano rosso, freschissimo. Quella di Che Guevara è al centro, né più grande né più piccola delle altre. Il suo piccolo bassorilievo riproduce, ancora, la foto di Korda. E sulla lapide è proiettata una stellina, semplicemente. La contempliamo in due: io e la giovanissima soldatessa in minigonna cachi che fa la guardia.

Appena nove mesi fa ero in Salvador, io. A vedere la tomba di Romero, malamente seppellito nello scantinato della cattedrale di San Salvador mentre accanto all’altare, al posto d’onore, vedevo onorare il ritratto del fondatore dell’Opus Dei. E a vedere il ricordo, le reliquie, di criminali di guerra, assassini, autori delle più efferate carneficinedella nostra epoca. Il Centro America, con la faticosa e sofferta eccezione del Nicaragua, rende ancora oggi omaggio ai carnefici di un’epoca, agli autori dello sterminio di centinaia di migliaia dei propri figli più poveri. Quando visiti il Salvador, l’Honduras, il Guatemala, senti che ti viene strofinata in faccia la tua stessa sconfitta, assieme all’inutilità di tanto sangue, di tanto dolore che non è riuscito a cancellare nessuna ingiustizia. Pareti e colonne ricoperte dei nomi piccolissimi delle vittime di quegli anni – così recenti – fitti fitti per farli stare in poco spazio e, poco oltre, le tombe di chi ha riscattato quei nomi ed è stato a sua volta assassinato per questo. Nelle piazze e nei musei, invece, le dediche agli autori delle stragi e i simboli dei paesi – gli USA, Israele – che gli vendettero le armi. A Cuba, no. Cuba rende omaggio, e sul serio, a chi è stato dalla parte della povera gente, nella storia contemporanea di questo continente, e benedetta sia la sua esistenza, fosse anche solo per questo.

Più tardi mi metto a cercare la stazione ferroviaria. Mi indicano una scorciatoia che consiste nel seguire i binari del treno lungo i campi. A un certo punto del percorso i binari si biforcano e, dall’altra parte, c’è un baracchino con un ferroviere che, urlando, mi chiede di dove sono. “Italiana”, gli urlo di rimando. “Io ho vissuto in Italia!”, mi urla lui. A Cremona, dice. Con sua moglie, pure lei cubana. Solo che poi la moglie gli è morta di polmonite, mi urla. “Il clima, sai? Un freddo terribile, non ha avuto scampo! Io sono tornato qua!” “E’ vero, lì c’è un clima impossibile!”, urlo io. Ci salutiamo con ampi gesti delle mani.


Alla stazione mi informano che il treno per Camaguey parte a mezzanotte e arriva alle cinque del mattino. E lì naufragano i miei propositi di viaggiare in treno. Chi me lo fa fare, a pensarci bene. Capisco che lo abbia fatto Miller: per lui, entrato a Cuba con un visto turistico, il treno era l’unico modo per viaggiare assieme ai cubani. Ma io ho il carnet di residente e posso prendere tutti i mezzi di trasporto riservati ai cubani e pagarli pure in moneta nazionale (pesos contro il Cuc che usano gli stranieri) con un costo che è l’equivalente di un dollaro o giù di lì ogni 200 chilometri. Dai, mi piglio il bus che viaggia a orari normali, perché uccidermi di fatica?