Las Tunas è piccola e graziosa, ti fa sentire a tuo agio appena arrivi. Di ottimo umore, salgo a piedi lungo calle Varela, dalla stazione dei bus, e trovo una villetta tutta pittata di rosa intenso che affitta stanze a noi stranieri. Busso, mi dicono che hanno una camera, entro, consegno la mia cartà d’identità e loro mi comunicano che no, se sono residente non mi possono accettare. Ma stiamo scherzando? Ed è che, secondo loro, se sono residente non posso pagare con la valuta degli stranieri ma solo in moneda nacional. A meno che io non dimostri che mi mantengo con soldi miei, cosa non menzionata nei miei documenti. “No, guardate, vi sbagliate”, dico io. Essendo italiana, è ovvio che mi autofinanzio. Fossi angolana o nicaraguense, certo, il governo cubano mi manterrebbe durante la mia permanenza qui e mi riserverebbe i suoi ostelli. Ma sono europea, cielo santo, come potete pensare che la Repubblica di Cuba si prenda la briga di finanziarmi? In questo paese dalla doppia valuta, a me tocca quella pesante, con gioie e dolori. Dove dovrei dormire, secondo loro, se non in una casa particular in CUC? E lì mi pianto, al grido di: “Chiamate l’ufficio immigrazione, io da qui non me ne vado”. Chiamano l’ufficio immigrazione, ho ragione io, mi consegnano finalmente la mia stanza, mi faccio la meritata doccia e, finalmente, caracollo verso la noche tunera.

Questa è un’altra cosa che ho imparato viaggiando per il Centroamerica: Cuba paga gli studi a tanti, tantissimi cittadini di paesi del mondo dove non ci si può permettere di studiare. Tu dici che vivi a Cuba, in Nicaragua e dintorni, e la gente cambia faccia, ti si mette sull’attenti. Se chi parla con te non ha studiato qui, suo fratello o cugino o zio lo ha fatto. Tutti hanno un debito di gratitudine con Cuba da raccontarti: chi si è laureato a Isla de los Jóvenes, chi ha avuto un parente malato salvato da medici cubani, chi ha genitori che hanno imparato a leggere e scrivere grazie ai maestri cubani. Ovunque, in tutto il Centro America e suppongo – pur senza averlo ancora visto coi miei occhi – anche oltre. L’estate scorsa ci ho vissuto di rendita, sulla mia residenza cubana, che mi è servita per ricevere un occhio di riguardo in mille occasioni.

Finalmente sistemata, come dicevo, metto il netbook in una borsa e raggiungo la piazza. Come sempre, dopo ogni viaggio e ogni fatica, venderei mia mamma per una birra e non posso: ho un mio percorso dimagrante da seguire e la birra mi è più proibita del veleno, devo farmene una ragione. Raggiungo il bar del’Hotel Cadillac, coi suoi tavolini all’aperto, e non so davvero cosa ordinare. Non vendono acqua, non vendono niente che non sia superalcolico, zuccherato o gasato. No, aspetta: hanno del vino spagnolo. Non dovrei, ma forse è la scelta meno disastrosa. Lo chiedo ben freddo nonostante sia rosso, conoscendo i miei polli. Mi arriva ‘sta bottiglia di un liquido marroncino che sa un po’ di aceto, ma che ti aspetti? Cuba non ha le temperature che ti permettono di conservare il vino. Cara grazia che sia appena bevibile.

Vorrei fumare un sigaro per mandare giù l’intruglio ma, vicino a dove sono, non ne vendono, e io sono troppo stanca per andarne a cercare altrove. Mi arriva un ragazzotto disposto a cercarne uno per me e io lo lascio fare, assolutamente consapevole della sua intenzione di spennarmi. Torna dopo poco, con un sigaro in cambio di un CUC. Io glielo pago ma, da napoletana, non resisto al bisogno di fargli sapere che non sono scema: “Questo sigaro costa un peso in moneda nacional, me lo stai vendendo a venticinque volte tanto!” Lui fugge senza replicare, col suo CUC. Una mezz’oretta dopo, mentre sono lì che smanetto al computer, una pioggia di sigari cala sul mio tavolino: è lui, che me ne sta dando altri dieci. Scoppio a ridere: “Ma dai, ti sentivi in colpa??”, ma lui è già al suo tavolino e lancia un brindisi col suo bicchiere. Dopo un po’ torna al mio tavolo, stavolta con una scatola di Montecristo che mi offre per 5 CUC. Sono 5 dollari. Figurati, gli dico. Giusto per provarli, ti do tre CUC e un bicchiere di vino. Lui prova il vino, mi comunica che sa di aceto e che proprio non capisce cosa ci troviamo noi italiani, in ‘sto intruglio rosso. Si rifugia nel suo rum, con evidente sollievo. Io guardo la scatola di Montecristo, ne deduco che sono farlocchi e gli dico che, guarda, ti offro da bere ma i sigari puoi tenerteli. E lui no, insiste perché li provi. E io li provo e fanno veramente schifo. “No, senti, ‘sta roba non è fumabile”, gi dico. Pigliati due CUC e pigliati pure i sigari, vendili a qualche altro straniero. Sono convinta di fargli un favore, mentre glielo dico e invece lui SCOPPIA A PIANGERE. Non credo che un blog basti a contenere il mio orrore.

“Senti, io ho quasi trenta anni”, mi dice tirando su col naso. “Non posso stare qui a imbrogliare i turisti, io ho una figlia, non sopporto più questa vita!” Cerco di ragionare, dinanzi alle sue lacrime: “Ma guarda che non mi hai ingannato affatto, non ho mai pensato che i tuoi fossero veri Montecristo! Ognuno di noi fa la sua parte, e io sono la straniera che non vuole scomodarsi a cercare sigari. E’ giusto che tu guadagni sulla mia pigrizia, smettila di piangere!” Niente. Insisto: “Davvero, te lo giuro su mia figlia, non mi hai imbrogliato!” E’ una situazione da cui non so come uscire, voglio solo vederlo ridere di nuovo. Che roba è? Poco alla volta lo tranquillizzo. Si asciuga gli occhi, chiede un altro rum – che paga lui – e parliamo un po delle rispettive vite. Tutto torna a essere normale. Fino a quando, guardandomi sereno, non mi offre i suoi servigi sessuali. “No, senti, e non insistere nemmeno, sei più giovane di mia figlia!” E lui, convintissimo e persino un po’ offeso: “Ah, ma io ti amerei senza assolutamente mancarti di rispetto!”Quello che mi mancava.

A Las Tunas vive una comunità italiana che, come dire, non dà grande lustro alla patria. Nel suo libro, Miller ne parla così:

Una ragazza giovanissima che flirta con tre italiani di mezza età […] E’ questo il prodotto finale di un decennio di Berlusconi? O forse è più un’epidemia locale? […] Non voglio dare giudizi basati sulla nazionalità, ma è un dato di fatto che a Cuba gli italiani in particolare hanno una cattiva reputazione. Nel 2010, tre di loro vennero arrestati a Bayamo, non lontano da Las Tunas, dopo il ritrovamento del cadavere di una ragazzina […]

Il mio amico cubano mi spiega che qui tutto costa la metà che all’Avana, comprese las chicas. E quindi ‘ste mandrie di miei connazionali passano le giornate ai tavolini dell’hotel Cadillac, bevendo nulla più di un caffè, pronti a spendere il resto di una non eccellente pensione pur di portarsi a letto una mulatta a caso. Li contemplo e penso – come spesso mi capita a Cuba – che forse i maschi sono davvero una razza inferiore. Perché, dai, sono inguardabili: vecchi, brutti, laidi, mano nella mano con delle ragazze bellissime e senza disagio, fieri di avere il potere di acquistare loro la pizza per compensare l’evidenza del loro fare schifo. Ma morite, fatevi un favore.

Rispetto ad altre mete degli sciacalli nostrani, tuttavia, Cuba ha due aspetti da non sottovalutare: uno è che non esiste una rete di sfruttamento delle ragazze. Sono libere imprenditrici, dotate di libero arbitrio e che si gestiscono i loro guadagni. E’ più di quanto possano dire le prostitute italiane, sfruttate da ogni mafia possibile. L’altro aspetto, ancora più importante, è che Cuba è un pessimo posto per gli importunatori di bambini o bambine. Qui non siamo in Tailandia: andare a caccia di sesso con minori, da queste parti, è come chiedere a gran voce di finire in qualche galera locale e di restarci a lungo. Come ben sanno alcuni italiani che ne sono ospiti, appunto.

Dove ci sono compatrioti c’è roba da mangiare, tuttavia, e io sono stanca di riso e fagioli e vorrei du’ spaghetti, quindi socializzo e chiedo lumi sui ristoranti del luogo. Ma niente, ‘sta comunità è pure un nido di vipere: uno che mi sconsiglia il ristorante dell’altro, l’altro che si vanta di scopare più del primo, un vecchio che invece di parlare di maccheroni insiste con gli sproloqui su quanto l’isola gli abbia rubato il cuore e sospira, oltre la dentiera. Mi rassegno alla loro inutilità e me li cerco da sola, gli spaghetti. Nel ristorante di un altro italiano ancora, quello dove mi avevano detto di non andare. Ottimi, ovviamente. Pettegoli e bugiardi, lo sapevo.