Guantánamo è varie cose: è una cittadina cubana non particolarmente turistica, con poco da vedere. E’ una baia ampia e molto bella, circondata da colline, che ospita tra le altre cose delle pregiate saline. Il sale di Guantánamo, dicono, è il migliore di Cuba. E poi è, come tutti sanno, una base americana che serve agli USA per detenere a tempo indeterminato cittadini non suoi senza processo né capi d’accusa, e torturarli potendo continuare a affermare che negli USA non si pratica la tortura, in un trionfo dell’ipocrisia probabilmente insuperato nella storia contemporanea e non solo.
Ma cosa ci fa un centro di tortura sormontato da una bandiera USA nell’isola di Cuba, tanto per cominciare? La vicenda è una delle mie preferite, come prof ma, prima ancora, come persona – ragazzina, ai tempi – che si è trovata ai tempi della scuola a guardare la storia del mondo da una prospettiva che non era quella anglofona, come è normale per i miei concittadini, bensì quella ispanofona. Perché ero in Spagna a fare il liceo, a 18 anni, e la poco atlantista Spagna di allora – non mi fiderei molto di quella di oggi, per questo – mi diede accesso a una narrazione della nostra epoca meno scontata e/o omissiva di quella che avrei avuto rimanendo a casa.
Siamo nel 1898. I cubani combattono contro gli spagnoli per l’indipendenza dell’Isola da circa trenta anni. Per meglio dire: i discendenti degli spagnoli, assieme ai discendenti degli schiavi che tagliano canna da zucchero da quattrocento anni, combattono contro il governo centrale di Madrid. La lotta, è bene specificarlo, non è contro il popolo spagnolo, la sua lingua o la sua cultura da cui tutti, qui, discendono. E’ contro un governo e una politica di sfruttamento, nulla di più. Per buona parte di questi trenta anni, gli Stati Uniti del nord avevano appoggiato la Spagna, considerata una partner commerciale più affidabile dei ribelli. Chiedendosi, intanto, come impadronirsi dell’isola. La compriamo? Ce la annettiamo? Ci limitiamo a farne un protettorato? Il dibattito ferve, negli USA. Propongono alla Spagna di vendergliela. La Spagna rifiuta. Ma ormai è chiaro che il suo tempo sta per scadere, che l’indipendenza di Cuba è vicina. E quindi intervengono nella lotta, gli USA, con il pretesto dell’affondamento di una loro nave da guerra – il Maine – per cui accusano la Spagna. Ma ‘sta cosa l’ho già raccontata, da qualche parte nel blog. No, non erano stati gli spagnoli a affondare il Maine. Lo hanno dimostrato le poche perizie che sono state possibili nei decenni successivi, fino a quando gli USA non hanno reso irraggiungibile il relitto.
Strano destino, quello degli Stati Uniti: nei momenti decisivi della loro storia, si ritrovano puntalmente a dovere vendicare un presunto torto subito, sempre, da avversari più deboli di loro. Tu vedi il karma, alle volte.
Il punto è che gli USA hanno la scusa per intervenire nella guerra d’indipendenza cubana al momento giusto. Spappolano l’esercito spagnolo, già logorato dalla guerra e comunque più piccolo, povero e peggio armato del loro, e mettono il cappello sull’indipendenza dell’isola, vanificandola. Obbligano Cuba a una Costituzione che dà agli americani il diritto di intervenire nei suoi affari interni quando più gli aggrada e, giacché ci sono, si aggiudicano l’usufrutto eterno di parte della baia di Guantánamo. Dove sono io stasera, con un bicchiere di rum e un netbook davanti a me, a ripensare a ‘sta storia.
Per togliersi di dosso gli USA, Cuba dovette aspettare cinquant’anni, la rivoluzione, Fidel Castro, Che Guevara, Camilo Cienfuegos e tutta l’epopea che conosciamo. Gente che non spuntò da sotto a un fungo, ovviamente: furono, piuttosto, parte integrante di un Novecento latinoamericano in cui ogni tentativo di libertà, di autogoverno, di effettiva indipendenza o comunque di giustizia sociale era e sarebbe stato in seguito annegato nel sangue da quei paladini della libertà detti Stati Uniti d’America, attraverso le loro multinazionali della frutta, gli eserciti privati, i finanziamenti ai golpes militari, le scuole di addestramento per torturatori e via enumerando. Cuba no, Cuba ce la fece. Li cacciò sul serio, gli USA. Tranne che a Guantánamo Bay.
Ancora oggi gli Stati Uniti pagano puntualmente l’affitto di 2000 dollari l’anno stabilito nel 1903 col governo fantoccio di allora in cambio della base, oggi rivalutato a 4000 dollari. E Fidel si tiene gli assegni, intatti, in un cassetto. Ha fatto di tutto per cacciarli da lì e non può. Ma, almeno, i cubani hanno smesso di essere i lavoratori manuali, i servi e il bordello della base. Il loro posto è stato preso dai portoricani, loro sì colonia degli USA a tutt’oggi, e come tale disprezzata dai colonizzatori stessi, come José Martí (cubano) e Rubén Darío (nicaraguense) avevano previsto un secolo fa per chi si fosse assoggettato.
E siamo a oggi. La mia Guantánamo, quella cubana, ha dato al mondo una canzone – Guantanamera – dedicata a una bella contadina. La Guantánamo qua dietro – quella degli USA, paladini della libertà e dei diritti umani –ha dato al mondo un centro di detenzione e tortura fuori da ogni legge. Guardo il mare e sono contenta di essere dalla parte giusta del confine. Io sono libera e nessuno mi torce un capello mentre sono qui. I musulmani imprigionati a qualche minuto di macchina dalla mia sedia sono in catene da anni, invece, e vestiti di arancione. I diritti umani sono una questione di punti di vista. O di propaganda.
La base, l’ho vista da lontano e di striscio ma l’ho vista, e giusto perché sono molto cocciuta.
Fino a qualche anno fa c’era un punto panoramico, il Mirador de Malones, da dove la si poteva osservare grazie a un telescopio. Poi, mentre la base diventava sempre più tetra e indifendibile, il Mirador è stato chiuso. Per non dare agli USA il pretesto per sentirsi provocati da chi li andava a guardare, suppongo.
A Santiago sono andata in un’agenzia governativa e ho chiesto cosa potevo fare per vederla da lontano, nonostante ‘sta chiusura. Perché? Perché ho passato mille anni nel mondo arabo, o pensando al mondo arabo, e non ho voglia di stare qui a farmi i bagni ignorando cosa c’è dietro l’angolo. E’ il mio unico perché, piccolo finché vuoi ma per me importante. Ho il dovere di vederlo, quest’orrore, fosse anche da lontanissimo, se solo posso. Come avrei avuto il dovere di andare a vedere Auschwitz, se fossi nata in un’altra epoca e fossi passata da quelle parti. No, non puoi, mi dicono. E’ tutto chiuso, vattene al mare. Impossibile fare altro.
Cerco di rassegnarmi. Mi dico che vabbe’, allora vado a Baracoa, che vuoi che faccia. Mentre lo penso, faccio il biglietto Santiago-Guantánamo. Ma è solo un caso, mi dico; da lì poi tanto proseguo. Dico davvero.
Arrivata a Guantánamo, mi dico che devo fare il biglietto per proseguire per Baracoa. Mi metto in lista d’attesa ma intanto, senti, faccio pure un giretto in città. Così, senza aspettative. Un giretto e basta. E, mentre vado in centro, chiedo al mio tassista come si fa per vedere la base USA anche se il Mirador è chiuso. Ma così, tanto per parlare. Lui mi dice di andare a chiedere all’Hotel Guantánamo, in periferia. Se non lo sanno loro non lo sa nessuno. E quindi mi faccio portare all’Hotel Guantánamo, mentre si fa tardi e, intanto, l’ultimo pullman per Baracoa parte senza di me.
L’Hotel Guantánamo, abbreviato in Hotel GTMO, è una costruzione moderna, statale. Alla reception mi rivelano ciò che a Santiago non mi era stato detto: che è stato appena aperto un altro punto panoramico, il Mirador de la Gobernadora. Che non ha binocoli perché è ancora troppo nuovo, ma è visitabile. Sennò, volendo, si può raggungere un paese vicino a Guantánamo – Caimanera, si chiama – da dove la base si vede benino, ma ci vuole il permesso del ministero per entrare, e ‘sto permesso richiede come minimo un giorno. Non ho da dormire a Guantánamo, quindi opto per il Mirador. Su uno sgabello del bar dell’Hotel Guantánamo elaboro una strategia: pernotterò dalle parti del Mirador, a una trentina di chilometri da dove sono adesso. Lungo la strada, in una frazione chiamata Tortuguilla, c’è una casa autorizzata a ricevere stranieri, l’ho scovata. Poi domattina proseguirò per Baracoa, non so bene come. Inshallah.
E quindi niente, trovo un taxi e vado. Raggiungiamo ‘sto Mirador, uscendo dalla strada principale e infilandoci su per una collina. E’ una specie di baretto all’aperto con dei tavolini occupati solo da cubani, alcuni dei quali in divisa da soldati. L’intera area, del resto, è considerata “zona di alto interesse militare”. Fra i tavolini, una vezzosa torretta. Mi accompagna su un’impiegata nerissima – minigonna e calze a rete d’ordinanza – e finalmente vedo ‘sta base, o almeno un pezzo. E’ a sinistra, oltre una collina che la copre in parte. Si vede una specie di molo con delle costruzioni. Dicono che ci sia un ponte. Dicono che col binocolo si veda la bandiera. “Ma proprio non lo avete, un accidenti di binocolo?” No, non ce l’hanno. E rimango lì a guardare ‘sto molo in lontananza mentre – lo darei come ovvietà – qualche vedetta munita – lei sì – di potentissimo binocolo guarda dove siamo io e la barista nerissima, dalla parte del cosiddetto “stato canaglia”. Tu pensa quanto è ridicolo, il mondo. Saremmo noi e il nostro odore di pollo fritto e i tavolini, le canaglie. Ma dai.
C’è una cosa che mi colpisce dal primo istante in cui ho messo piede a Cuba la prima volta, ed è il cielo. E’sempre pieno di nuvole bianchissime che sembrano giganteschi ciuffi di ovatta. Non è mai, proprio mai, solo azzurro. E’ un cielo movimentato, incasinato, che non sta mai fermo, pieno di forme bianche. Il cielo mediorientale è l’esatto contrario: azzurro intenso e senza mai una nuvola. Azzurro senza fine, senza nulla che lo interrompa.
“Deve sembrare strano agli arabi, ai musulmani rinchiusi dietro alla collina”, penso. Ammesso che lo possano vedere. E poi no, mi rassegno al fatto che non lo possono vedere. Sepolti vivi nella loro prigione, immersi 24 ore al giorno nella luce artificiale, soggetti a deprivazione sensoriale, a tortura, privi di qualsiasi diritto, senza sapere di cosa li si accusa e a cosa, a quanto tempo, li si condanna. Lo avranno visto poco, ‘sto cielo per loro così esotico. Ammesso che siano mai riusciti a vederlo.
E finisce che mi faccio il segno della croce, mentre guardo verso l’orrore, e poi penso “Bismillah”, nel mio privatissimo sincretismo religioso, e mi sento male ad andarmene ma che altro posso fare. Cosa puoi mai fare.
Se non provare disgusto e disprezzo, unica reazione possibile di fronte all’ipocrisia dell’impero in cui mi è capitato di nascere. E sentirmi enormemente fortunata, mentre mi concedo l’infinità libertà di voltare le spalle alla bandiera a stelle e strisce che si vede col binocolo e torno a guardare ciò che ho attorno, Cuba e la sua gente, e a sentirmi al sicuro.
“Sepolti vivi nella loro prigione, immersi 24 ore al giorno nella luce artificiale, soggetti a deprivazione sensoriale, a tortura”
Questo però non è più vero, esistono certamente diverse questioni di legittimità delle detenzioni in quel carcere, ma non si tratta più dei canili di Camp X-Ray. Oggi quello di Guantanamo è un centro di detenzione gestito in maniera civile e professionale che probabilmente molti dei detenuti nostrani invidierebbero.
Come no. Mi immagino la fila.
Questo è il racconto di Federico Semprini de La Stampa che lo ha visitato nel 2009:
http://www1.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200907articoli/45884girata.asp
Ovviamente non è un parco giochi, ma sicuramente non è più vero che i detenuti vivano “Sepolti vivi nella loro prigione, immersi 24 ore al giorno nella luce artificiale, soggetti a deprivazione sensoriale, a tortura”. Sei rimasta a 10 anni fa.
Ho letto. Quindi, dopo anni, quelli che si comportano meglio hanno acquisito il diritto di vederlo, il cielo, e pure quello di studiare la lingua in cui, prima o poi, uno stato straniero li processerá. Sono felice del progresso. Ci si accontenta di poco.