dacia

Quando Dacia Valent, ormai tanti anni fa, scrisse il primo dei suoi numerosi post contro di me, diverse persone mi esortarono a difendermi. La mia amica Marzia venne a casa a cercare di convincermi: “Non puoi non risponderle”. Io ero completamente passiva. In realtà volevo espiare. Non era solo la decenza a impedirmi di partecipare a una lotta nel fango di livello infimo: c’era anche, nel mio silenzio, una volontà di espiazione, un desiderio di punirmi, una specie di voluttà nel ricevere il giusto castigo per avere fatto la cazzata, la grandissima, smisurata cazzata di fidarmi di quella donna. Come avevo potuto? La Valent, a quel punto, poteva scrivere quello che voleva, non era niente in confronto a quello che mi dicevo io da sola davanti allo specchio: “Cretina. Incommensurabile cretina. Lo sapevi, che non dovevi fidarti di lei, e invece lo hai fatto. Ben ti sta.”

Aveva passato mesi a cercare di convincermi a darle il certificato che attestava il mio matrimonio in moschea con Hamza Piccardo, che allora aveva non ricordo quale carica nell’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche d’Italia. Voleva denunciarlo sui giornali come poligamo, visto che lui aveva già una moglie, e fare scoppiare il relativo scandalone che io invece consideravo insensato, inutile e indecente, tanto nel metodo come nel merito. I miei problemi con Piccardo erano altri, e della presunta poligamia non me ne poteva fregare di meno. Cercò di convincermi con le buone, poi con gli insulti, infine con le minacce. L’ultima volta che ci sentimmo al telefono, mi disse che mi avrebbe fatto pagare la mia mancanza di collaborazione. Lo stesso giorno girò a Magdi Allam una mia email diretta a Piccardo e, il giorno dopo, il Corriere della Sera montò lo scandalo pubblicandola in prima pagina. In mancanza del certificato, si fecero bastare un’email che io ero stata tanto idiota da inoltrare anche a lei.

Poi mi mandò segnali concilianti, che volevano dire: “Dai, ormai lo scandalo è scoppiato, cavalcalo.” Sognava la pubblicità, l’interesse della stampa, e di presiedere l’ennesima associazione inventata, stavolta sui diritti delle musulmane. La pretestuosità del tutto la lasciava completamente indifferente. La scaricai e denunciai per diffamazione sia Allam che il Corriere. E lei reagì con tutta la violenza e la malafede che aveva, accusando me di avere inoltrato la email e dando inizio a quelli che sarebbero diventati anni di insulti via web.

Ma come ero arrivata a quel punto? Come avevo potuto mettere nelle sue mani quella email, uno strumento tanto potente per fare del male a me e ad altri?

All’inizio la conoscevo solo via blog. Erano anni in cui eravamo in quattro gatti a opporci alla demonizzazione dei musulmani sul web, e molte delle cose che scriveva non mi dispiacevano. Eravamo dalla stessa parte. Tornai in Italia dopo avere vissuto qualche anno in Egitto e lei si procurò il mio numero di telefono e mi chiamò. Aveva una conversazione scoppiettante, molto avvolgente. La trovavo buffa. Abbastanza svitata ma nel complesso simpatica, e poi in Italia mi sentivo come un pesce fuor d’acqua, ci chiacchieravo volentieri. Una sera, al telefono, mi disse: “Uff, ho Piccardo sull’altra linea che si è lasciato con la moglie e non fa altro che lamentarsi!” Io, scherzando, le dissi: “E mandalo a me, che sto sfidanzata!” La mattina dopo mi ritrovai nella casella email una lettera assurda del personaggio in questione: aveva preso una mia foto da Flikr, in cui ero abbracciata al mio ex compagno. Aveva ritagliato via l’immagine dell’ex e si era messo al posto suo. Il titolo era: “A volte i sogni si avverano.”

Io, ‘sto tizio lo avevo stimato per anni. Avevo pure il Corano di cui si dichiarava traduttore. Ricordo che guardai la email, mi dissi: “No, questo deve essere un incubo, ora mi faccio un caffè e questa roba idiota sparirà”. Mi feci il caffè, tornai a guardare il pc ma l’email era sempre là. Avrei dovuto fuggire allora. Invece mi dissi: “Ma no, dai, non può essere un idiota. Forse è solo un po’ goffo. Cominciamolo a conoscere e poi vediamo.” Come avrei appreso in seguito, curiosity killed the cat. Ma questa è un’altra storia.

Dopo un po’ cominciai a rendermi conto che la Valent era matta. Non antipatica, no. Però matta. C’erano state le elezioni, la sinistra aveva vinto e la Valent si mise in testa che Piccardo avrebbe dovuto chiedere un sottosegretariato. Visto che lui non ne aveva nessuna intenzione, cercò di convincere me. In questi termini: “Senti, tu hai accesso alla sua email. Manda una lettera a Diliberto dal suo indirizzo e chiedi tu il sottosegretariato fingendo di essere lui, così scavalchiamo la sua sciocca ritrosia.” “Dacia, ma sei matta? Non ci penso nemmeno!” E così litigammo, io venni accusata di tradimento e smettemmo di sentirci. A Piccardo manco glielo raccontai, se non ricordo male. Non volevo infierire, né mettere zizzania tra di loro. E’ capitato spesso che io le usassi delle cortesie di cui poi mi sarei pentita.

Alla Valent, Piccardo piaceva assai. Una volta andammo a trovarla a Roma, e lei ci ricevette con un vestitone colorato che copriva fino ai piedi le sue forme da grande obesa ma che le lasciava le tette quasi completamente scoperte. Fu una visita surreale e a modo suo divertente: viveva in una casa che aveva la porta blindata – per motivi di sicurezza, diceva – ma aveva perso le chiavi e quindi la porta rimaneva sempre aperta, notte e giorno. Ci aveva preparato una pizza per cena, ma si bruciò nel forno e  rimanemmo digiuni. Allora ci offrì un tè e, per sé, finse di servirsi un bicchiere d’acqua, ma era evidentemente gin. Facevano una strana coppia, lei e il musulmano osservante che cercava di evitare sia la visione delle tette che quella del gin. Ce ne andammo in fretta. Poi, come dicevo, smisi di sentirla. Mi aveva bollato come traditrice della causa, vista la mia mancata collaborazione nell’inganno a Diliberto, e io avevo l’età per sapere che le matte, per quanto buffe, possono essere pericolose. Non mi mancava.

Si rifece viva lei quando io e Piccardo ci lasciammo, qualche mese dopo. A mia discolpa posso dire solo che ero in un periodo veramente spaventoso. Avevo un mal di cuore terrificante, a cui si sommava un trasferimento a Genova, dove non ero mai stata e che non sapevo manco da che parte iniziare a fare. Dormivo in una casa vuota, con il solo sacco a pelo a terra, e la mia cucina consisteva in un bollitore elettrico per farmi il tè. L’acqua la prendevo dal bagno, ché altri rubinetti non ne avevo. La mia unica amica a Genova era Marzia, che mi era provvidenzialmente sbucata dal blog. Ma, tolta lei, mi sentivo solissima. Di lì a sfogarmi con Dacia, nelle telefonate chilometriche mi faceva, ci misi un attimo. Tutto quello che non potevo scrivere, lo dissi a lei. Mi confidavo, le aprivo il cuore, parlavo come un’idiota. Le raccontai l’infinito.

Nella conversazione era brava, davvero. Poi aveva il senso dello spirito, che è una cosa che mi disarma da sempre. Fammi ridere e io dimenticherò in un attimo tutte le perplessità che nutro nei tuoi confronti. E, di ridere, ne avevo davvero bisogno.

All’inizio non ero incazzata con Piccardo. Ci soffrivo parecchio, ma un uomo che decide di tornare da moglie e figli lo capisci, non è che ti puoi incazzare. Stava facendo una cosa ragionevole e stava a me farmela passare. Ma che mal di cuore, gessù. Era un dolore fisico, non finiva mai.

Cominciai a incazzarmi quando al dolore si sommò il senso di umiliazione, quando mi sentii strofinare in faccia l’infinita ipocrisia, la doppia morale di tutta l’impalcatura islamica che mi aveva circondato nei mesi precedenti e di cui già da tempo vedevo le contraddizioni e le incongruenze.

Mi incazzai per un materasso. Quando feci chiedere al tizio di una moschea di mandarmi un paio di marocchini fidati per farmi portare a casa un materasso che Marzia gentilmente mi regalava, e la risposta fu: “Ah, ma è per Lia di Haramlik? Allora non posso mandarle nessuno, è la moglie di Piccardo e sarebbe una mancanza di rispetto nei suoi confronti.” Si vede che era più rispettoso farmelo portare in spalla per tutti i vicoli di Genova. Chiesi spiegazioni a lui, al mio ex. E lui, candido: “Sai, mi sento in colpa perché l’islam dice che ti dovrei aiutare. Anzi, ti dovrei proprio mantenere per i prossimi mesi, secondo la mia religione. Solo che se vengo a aiutarti rischio di cadere in tentazione, quindi non posso.”

Hai presente l’ultima goccia? Ecco. Tutta la zuppa islameggiante che mi aveva circondato nei mesi con lui, così diversa dall’islam bello che avevo conosciuto in Egitto, e così primitiva, rozza, maschilista, contraddittoria, doppia e tripla, piegata alle convenienze, intrisa di superstizione e, a volte, addirittura di malvagità, mi sommerse e mi soffocò e, per non affogarci dentro, decisi di reagire. Vuoi fare il musulmano? E allora lo fai come si deve, non come conviene a te. E se l’islam ti dice di aiutarmi, tu mi aiuti. E se ti dice di mantenermi, tu mi mantieni. Sennò ti inchiodo a tutte le tue contraddizioni. Non davanti alla stampa, ovvio che no. Davanti ai tuoi, davanti alla tua stessa comunità. Il mio era un discorso interno, opposto a quello di un Magdi Allam. Non era contro l’islam, al contrario: era un richiamo a prenderlo sul serio, a essere coerenti. Mi pareva il minimo.

E invece la Dacia si prese le mie confidenze, i miei sfoghi e la mia email e portò tutto da Magdi Allam. Ancora mi chiedo quanto si fece pagare.

Le settimane prima che la storia approdasse sul Corriere furono un supplizio. Dacia era fuori controllo ormai da un pezzo e io, consapevole di avere fatto una cazzata a lasciarmi andare con lei, cercavo solo di tenerla buona, come chi cerca di tappare la falla di una nave con il dito. Aveva scoperto un filone con cui rientrare in politica, farsi intervistare, tornare sui giornali e in tv, e questo filone era la poligamia e io il suo asso nella manica, quella che le poteva dare tutto questo. Se solo le avessi mollato il mio stupido certificato che attestava un altrettanto stupido matrimonio in moschea, fatto per fare sesso senza che il musulmano facesse peccato. Se solo avessi collaborato. Già si vedeva, a capo di una fantomatica associazione in difesa delle musulmane, mentre denunciava per poligamia il pezzo grosso dell’islam nostrano davanti ai taccuini adoranti. “Ma lui ti ha costretta al matrimonio!!” “Dacia, ma sei scema? Io sono una quarantenne italiana, non una dodicenne yemenita! E con quale minaccia mi avrebbe costretta? Quella di non venire a letto con me?” Mi sembrava incredibile che una donna pur dotata di senso dello spirito, quale lei era, non vedesse l’assurdità della sua pretesa.

Mi ritrovai a inseguire una pazza. Ore di telefonate tutti i giorni, e mentre era in linea con me chiamava mezzo mondo. Il sindaco di Pioltello, per denunciare il poligamo locale. I giornalisti di Repubblica, e io riattaccavo prima che riuscisse a avere la linea. Settimana dopo settimana, vedevo fino a che punto ignorasse qualsiasi tipo di etica: era capace di mentire su qualsiasi cosa, di coinvolgere i bambini del poligamo di turno, di passare sopra ogni tipo di senso morale. Non aveva nessun freno inibitorio. Un delirio. Infine, la falla oltrepassò il mio dito e finimmo a picco, con Magdi Allam che, trionfante, sventolava la mia email dal Corriere.

Quando cominciò a aggredirmi sul blog, la conoscevo ormai troppo bene. Sapevo anche che faceva paura a un sacco di gente. Aveva veri e propri dossier su chiunque avesse avuto a che fare con lei, e una capacità di ricatto di notevole portata. Era una collezionista di punti deboli altrui, e su questo fece leva per assicurarsi la solidarietà dei suoi due sodali, Sherif El Sabaye e Miguel Martinez. Con Sherif non dovette manco sforzarsi. Il tipo è talmente pavido che anticipa le minacce, va di sua sponte da chi gli conviene. Con Miguel Martinez, la cosa fu un po’ più sottile e allo stesso tempo grottesca. Mi sono chiesta a lungo quali fossero i motivi per cui Martinez dava man forte a un’informatrice di Magdi Allam , ma la verità è che ho sempre saputo quale fosse la leva principale del suo comportamento e, dopo tanti anni, forse si può anche dire: è che Martinez, quando andava a Roma, diceva a sua moglie che dormiva a casa di Dacia ma, in realtà, andava a dormire dalla prima moglie. E Dacia non avrebbe esitato a smettere di coprirlo e a raccontarlo alla moglie nuova che, incidentalmente, in quel periodo era pure incinta. Cosa non si fa per la famiglia.

Ha continuato a gettarmi rabbia addosso per anni, la cara Dacia. In un modo viscerale, che le veniva dalla pancia e le cui motivazioni non si esauriscono in un mancato exploit mediatico. L’odio di Dacia era più profondo di così.

Ricordo le immagini che accompagnarono una serie di suoi post: nel primo c’era la vagina di una donna bianca, bruttissima, spelacchiata. Nel secondo, una vagina coi colori dell’arcobaleno. Nella terza, infine, la vagina di una nera: bellissima, perfetta. Non è che ci voglia Freud, per spiegare la successione.

Ogni suo post su di me traboccava di riferimenti sessuali. E di sesso mi aveva parlato in continuazione, da sempre. Credo che per lei fosse un’ossessione, un fuoco, qualcosa che le bruciava dentro. Quando al telefono mi pregava, e poi mi urlava di darle il certificato, sembrava che la stessi paralizzando mentre era sull’orlo di un orgasmo che continuavo a sottrarle, a impedirle di avere. E quella prima pagina del Corriere, infine, glielo concesse. Se il termine “isterica” ha un significato vero, Dacia lo incarnava.

Se di orgasmo si trattò, comunque, fu l’ultimo della sua vita.

Si ritrovò senza più niente. Provò a tenersi ancora a galla per un po’, col premio farlocco della IADL, e poi sprofondò nemmeno tanto piano, con litigi sempre più generalizzati, sempre più violenti, sempre più insensati. Passò un periodo da una sua amica, a Milano. Lo passò bevendo un bottiglione di vino da cinque litri ogni giorno, poi litigò e usò il blog per coprire di insulti l’altra e, giacché c’era, pure le sue bambine. La sua ex amica, completamente sgomenta, divenne amica mia.  Cominciò a collezionare denunce, poi condanne. Solo con me ha preso due anni di reclusione, fra i due processi che le ho appioppato. E ventimila euro da risarcirmi. Mettici anche i processi avuti con altre persone e prima o poi sarebbe finita in galera.

L’ultima volte che ho avuto sue notizie, è stato leggendo una tizia che cercava di tirare su dei soldi per lei, dicendo che non aveva da mangiare né da comprarsi le medicine. Ma io l’avevo sempre vista fare colletta in un modo o nell’altro. Era il modo in cui si guadagnava di vivere. Non mi impressionai molto.

Seguii un po’ la storia: la davano in un paesino del Lazio,sola e disperata, ancora troppo giovane per accedere alla sua agognata pensione da europarlamentare. Il ritratto che ne facevano era impietoso:

Dacia va e viene dagli ospedali, che però non le danno poi le medicine di fascia C di cui lei ha bisogno…E’ un gatto che si mangia la coda, senza medicine, senza soldi ( ha solo 50 anni e non può accedere alla pensione da eurodeputata), sta morendo sola e disperata. Se qualcuno di voi tutti si può movere per aiutarla…E’ un caso umano e un pò di Pietas talvolta farebbe bene a tutti.

Conoscendola, una non sapeva se crederci o no: a me disse che si era ricoverata per un tumore, una volta, che invece risultò essere un intervento di chirurgia bariatrica. Per dire.

Invece adesso è morta, e sul serio. Non mente. E, dopo tanti anni dalla prima volta che ne sentii la voce (“Ciao, Lia, sono Dacia Valent”), eccomi qua a scriverne ‘sta specie di necrologio. Era un genere che le piaceva, ricordo.

No, non fingo dispiaceri che non provo e che non potrei provare. Penso che al mondo ci sia una persona cattiva in meno. Una volta tanto, non è morto qualcuno destinato a mancarmi.

Però sono una persona sportiva e lei, quando ragionava, sapeva essere spiritosa. E quindi non posso non pensare che una parte di lei sia contenta di essere morta prima di prendere la sua famosa pensione: io ci tenevo tanto quanto lei, a che la prendesse, ché lì dentro c’erano i ventimila euro che mi doveva.

Mi ha fregato. Se sta da qualche parte, so che le farà piacere.