Discutendo di Cuba su un social network prevalentemente piddino, qualche tempo fa, mi ritrovai sbeffeggiata da una tizia che con l’aria ironica chiedeva, più o meno: “Ma davvero gli USA hanno cercato di impadronirsi di Cuba? E quando è successo? Non starai esagerando?” Era convinta di avere a che fare con qualche fanatica demonizzatrice di USA, una che esagera, magari distorce. “Impadronirsi”, addirittura.
Uno dei grandi paradossi su cui si basa l’opinione pubblica, nel cosiddetto Occidente, è che studiamo solo la nostra storia ma, nel contempo, pretendiamo di discutere di Cuba, America Latina, mondo arabo, paesi musulmani e via elencando. La ragazza del SN ignorava completamente la storia di Cuba (ma anche quella di USA, Spagna e America Latina in generale) e la sua ironia era integralmente figlia di una formazione che per sintesi definiremo liberal e che è ideologica quanto qualsiasi altra. La sua reazione istintiva di fronte a un dato storico che non coincideva con la sua visione del mondo (“Sì, gli USA hanno fatto degli errori ma non dimentichiamo che sono i buoni”) consisteva nel sospettare di ideologismo l’interlocutore.
Ricordavo l’episodio leggendo la lezione di storia che Noam Chomsky impartisce al New Yorker, il quale commenta in questi termini l’apertura degli USA a Cuba:
La pace con Cuba ci riporta momentaneamente indietro all’era dorata in cui gli Stati Uniti erano una nazione amata in tutto il mondo, quando era in carica un J.F.K. giovane e bello, prima del Vietnam, prima di Allende, prima dell’Iraq e di tutte le altre miserie, e ci consente di sentirci orgogliosi di noi stessi per aver finalmente fatto la cosa giusta.
Le parole sono importanti, le prospettive storiche non ne parliamo. Non è un caso che uno dei grandi smascheratori delle narrazioni più o meno tossiche che ci arrivano dai media sia un linguista. L’articolo di Chomsky, storicamente impeccabile, è da leggere integralmente. E dimostra, una volta di più, quanto il pensiero dominante sia particolarmente insidioso quando viene spennellato di progressismo. In genere ne vediamo gli effetti riferiti a Israele, ma pure con Cuba non si scherza.
E quindi: no, JFK non è stato uno che faceva la cosa giusta:
Una delle decisioni di maggior importanza di Kennedy fu nel 1962, quando egli cambiò efficacemente la missione dell’esercito latinoamericano dalla “difesa dell’emisfero” – un residuo della seconda guerra mondiale – alla “sicurezza interna”, un eufemismo per la guerra contro il nemico interno, la popolazione. I risultati sono stati descritti da Charles Maechling, che diresse la pianificazione statunitense della contro-insurrezione e della difesa interna dal 1961 al 1966. La decisione di Kennedy, ha scritto, ha modificato la politica USA dalla tolleranza “della rapacità e crudeltà dei militari latinoamericani” alla “complicità diretta” nei loro crimini, al sostegno statunitense ai “metodi delle squadre di sterminio di Heinrich Himmler”.
E prima di JFK? La Dottrina Monroe si impone in America Latina col ‘900, ma potremmo andare ancora più indietro: la guerra tra USA e Messico è di metà ‘800. La politica del “grosso bastone” di T. Roosevelt è dell’inizio del secolo scorso. L’occupazione di Cuba da parte degli USA è sancita dall’emendamento Platt nel 1902. E poi l’occupazione di Haiti, le varie “guerre delle banane” che nel nostro immaginario sembrano addirittura una cosa buffa e che dureranno fino a metà degli anni ’30. E poi la terrificante tragedia del Guatemala, a partire dagli anni ’50. E poi il terrorismo contro Cuba, a base di bombe, attentati e disastri aerei provocati, e infine quella che Chomsky chiama la “vaccinazione” del resto dell’America Latina contro le influenze cubane: i colpi di Stato, le dittature militari, l’addestramento dei torturatori, i desaparecidos, le invasioni militari di reaganiana memoria.
Io non so cosa avessero in mente al New Yorker, citando i loro bei vecchi tempi immaginari. So che la storia dell’America Latina è un incubo dettato dagli USA e che non dai un passo, in certi paesi, senza rendertene molto dolorosamente conto.
Chomsky ricorda un episodio che mi ha fatto venire i brividi:
l’assassinio di sei eminenti intellettuali latinoamericani, sacerdoti gesuiti, da un battaglione salvadoregno d’élite, fresco di un addestramento aggiornato presso la Scuola Speciale di Guerra JFK a Fort Bragg, eseguendo gli ordini dell’Alto Comando di assassinarli con tutti i testimoni, la loro governante e sua figlia. Il venticinquesimo anniversario dell’assassinio è appena trascorso, commemorato dal consueto silenzio, considerato appropriato per i nostri crimini.
Ci sono stata l’estate scorsa, in quello struggente inferno in terra che è il Salvador. Un posto dove il turismo lo fai tra le tombe, dai gesuiti a Romero ai murales colmi di nomi di gente sterminata, sotto gli occhi di un esercito che ancora si vanta delle sue vittime.
Intanto si è fatto il 2015 e gli USA si sono aperti a Cuba. Ne sono sinceramente felice, non sono tra quelli che si atteggiano a duri e puri sulla pelle degli altri popoli. E’ una buona notizia per i cubani. E, soprattutto a livello di principio, è la vittoria di un’isola che ha sofferto 50 anni di embargo senza piegarsi.
Trovo però che abbia ragione Chomsky quando afferma che, a livello più ampio e sostanziale, la vittoria è stata degli USA:
Il modo per affrontare un virus che potrebbe diffondere un contagio consiste nell’uccidere il virus e nel vaccinare le vittime potenziali. Tale politica sensata è esattamente quella che Washington ha perseguito e, in termini dei suoi obiettivi primari, tale politica è stata molto riuscita. Cuba è sopravvissuta, ma senza la capacità di conseguire il temuto potenziale. E la regione è stata “vaccinata” con dittature militari malvage per impedire il contagio.
Noi non sapremo mai cosa sarebbe stata Cuba se non l’avessero soffocata per mezzo secolo. Vediamo i miracoli che l’isola è ruscita a fare nonostante l’embargo, e vediamo che comunque a Cuba si è sofferto molto e ancora si soffre. Possiamo dividerci in schieramenti e urlarci contro che la colpa è degli USA o che, niente affatto, è di Fidel. Ma il fatto è che non abbiamo la controprova: se Cuba non fosse stata strangolata da una punizione lunga cinquanta anni, cosa sarebbe oggi?
Neanche il futuro si accompagna a grandi certezze. A Cuba c’è un sacco da fare. Certo, riempirla di complessi turistici è un attimo, mentre rimettere in piedi tutti gli aspetti della realtà cubana che hanno bisogno di intervento senza, nel contempo, smantellare il molto che funziona, è impresa più complessa.
Io credo, ed è anche una speranza, che il cambiamento sarà lento, graduale. L’idea è migliorarsi la vita, non vendersi l’anima. Non più di quanto sia fisiologico, con o senza aperture USA. La mia sensazione è che il paese tiene, è solido. Inguaiato eppure saldo. E i cubani non mi sembrano minimamente intenzionati a rinunciare a tutto ciò che li distingue dai paesi affini: al loro stato sociale, alla sicurezza delle sue città libere dal narcotraffico e i suoi effetti, ai loro bambini che non lavorano ma studiano.
Io dico che ce la fanno: è da tanto tempo che mostrano al mondo di cosa sono capaci.
Però non è che sia tanto brava nelle profezie, io.
Speriamo che se la cavino. Io parteggio per Cuba.
che bello rileggerti Lia; come è facile arrivare con gusto fino alla fine e avere voglia che lo scritto continui ancora.
Ottima l’idea di dare una rinfrescatina della storia… siamo un branco di ignoranti e la situazione sembrerebbe voler peggiorare.
Ovviamente anche io tifo per Cuba e, utopicamente , spero che sia lei a contagiare le cose buone che ha fatto nonostante tutto.
Ciao, Barbara! :)***