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Siccome qui ci piace complicarci la vita, ho passato l’ultima settimana a prendere ogni singolo pezzo di carta attestante la mia esistenza professionale e a tradurlo in spagnolo perché ho deciso di fare questo concorso che non ho alcuna possibilità di passare, al momento, però intanto imparo come si fa e l’anno prossimo, con tutto già tradotto e il grosso già fatto, ci riprovo e poi boh. Ci sono cose che bisogna fare per forza, ogni tanto. Giusto per dirsi che le si è fatte, appunto – o, meglio, per non dirsi che non le si è fatte. Sennò va a finire che ci si impigrisce, oltretutto, e comunque un po’ di sano stress (“Oddio, ho due giorni di tempo per tradurre 103 documenti!!“) fa bene ai neuroni e li disincaglia, così poi funzionano più spediti. Si spera.

E poi oggi sono andata a Milano a consegnare il malloppone nell’apposito ufficio – pagando 65 euro per un biglietto di treno Genova-Milano, e così imparo a pensare: “Uh, sto per perdere il treno, dai che il biglietto lo faccio a bordo!” – ed era un bel po’ che non ci andavo, nella Big Rucola, e tornare a casa è sempre un piacere, quando si va lì. Scendi dal treno del ritorno, a Genova Principe, e l’effetto è quello di rivedere i colori dopo una giornata passata in bianco e nero. Una ci andrebbe giusto per godersi il piacere del rientro, quasi quasi.

Ho passato giorni e giorni a fare ‘sta cosa, quindi: a tradurre, a ricostruire, a raccogliere documenti mancanti, a sprizzare agitazione con tutti gli spagnoli che mi capitavano a tiro (“Ma che è la quiescenza?? Ma voi come la chiamate, la Corte dei Conti?? Ma i numeri tu li metti con la penna o col pennarello??“) e a ringraziare il cielo perché qui abbiamo amici pazienti che le crisi di panico organizzativo che ci assalgono ogni volta che si tratta di fare ordine in qualcosa non le prendono troppo sul serio, per fortuna, ed io non conosco nulla di più tranquillizzante del non essere presa sul serio, appunto, quando ho il panico organizzativo. E adesso ho la casa che è un tappeto di fotocopie di documenti sparsi a terra – sono le spoglie di ciò da cui ho tratto il meraviglioso fascicolone organizzatissimo di cui mi sono finalmente disfatta stamattina – e le tiro su domani, ché stasera non voglio toccare nulla che abbia forma di foglio di carta, non ne posso più. Basta.

Dialogo nell’osteria sotto casa mia, l’altra sera:

Io, esausta: “Uff: preparatemi qualcosa voi, ché sto facendo il concorso per andare a Vattelappesca e non ho avuto manco il tempo per fare la spesa, oggi!

L’oste: “A Vattelappesca? Ah, ma la conosco!

Io: “Come, la conosci?? Non la conosce nessuno, come fai a conoscerla? Io l’ho dovuta cercare su Google…

L’oste: “E’ che quando facevo il marinaio ho passato anni a pescare coralli da quelle parti. Che ti faccio, un minestrone?

E tu rimani lì a guardarlo, l’oste che pescava coralli a Vattelappesca, e ne concludi che è portentosa, Genova. Pensavi che fosse esotica da morire, Vattelappesca, e invece ti basta scendere sotto casa per fartela descrivere dal tuo oste di fiducia.

La città non è granché, ma il mare è così pulito che nel porto ci cresce il corallo“.

Ah, ecco.