Ci sono cose che metto solo in Egitto, io. Quelle accollate, in realtà. E già lo rinnovo poco, il mio parco-vestiti, figuriamoci se ho roba accollata nuova. La mia valigia per l’Egitto, quindi, è quella che è sempre stata: le stesse camicione, le stesse gallabeya per stare in casa, le stesse gonnone lunghe, tutto uguale. Non ho manco bisogno di pensarci, le prendo dall’armadio ad occhi chiusi. Ah: gli scialli, anche. A Genova mi stava passando, la mania degli scialletti, ma al Cairo non si può vivere senza. E poi, vabbe’, il costume da bagno, ché Julia diceva che la piscina di quest’anno è quella del Marriott, e lì si fa il bagno pure di notte, è sempre aperta. Suggestiva, poi.

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Avevo fotografato la valigia che sto facendo, ma ho il bluetooth che non va: starà interferendo con l’hd esterno che ho preso a Milano e però non ho voglia di risolvere problemi, oggi. Non c’è nulla che non possa essere fatto al Cairo. Magari formatto pure, una volta là. E poi vado dal dentista, to’. E mi faccio aggiustare i pantaloni neri. E poi mi faccio stirare la roba, subito. Appena arrivo, lo stiratore sotto casa sarà la prima persona che vedrò, ecco. E’ da un anno che non indosso nulla di stirato. Dall’ultima volta che sono stata al Cairo, appunto.

Ho dormito sonni agitati, stanotte, con la sensazione di sfuggire a delle responsabilità. Però poi l’universo mondo mi dice che non c’è motivo per cui io non debba partire, e quindi parto. Agitatella, però, lo sono. D’altra parte, senti, sono mesi che so di dovere lavorare quest’estate. Se faccio la giudiziosa e non mi spendo tutto al Marriott, questa trasferta può essere relativamente benefica, sul piano economico. E lo è di sicuro su quello professionale, comunque, ché insegnare là è come fare un corso di aggiornamento. Meglio, anzi. Certo che mi farò un culo notevole, comunque.

Poi mi perdo, io, ogni tanto, e in Egitto mi ritrovo, torno a centrarmi. La Pupina mi fa: “Tu stai sviluppando dei livelli di tolleranza e comprensione preoccupanti: metti dei paletti, per favore.” Ed è vero, in qualche modo. L’antica abitudine all’interculturalità mi fa guardare le follie altrui con curiosità, con un lavoro di empatia nel quale finisco col dimenticarmi di me stessa. Come se i miei contorni sfumassero. Una si perde davvero, se non sta attenta.

Ripasso mentalmente i miei brandellini di arabo: mi alleno al taxi che prenderò all’aeroporto e alle sigarette che comprerò e così via. E’ poco, il mio arabo, ma è calato dentro, bene in fondo. Me ne accorgo quando vado a Milano e riconosco la parlata degli egiziani a un chilometro. A Genova non ce ne sono, di egiziani. Tutti marocchini, gli arabi di qua, e sentirli parlare non mi evoca nulla. A Milano sembro una cretina, invece, ché mi viene voglia di chiedere: “Inta masri?” a ogni pizzaiolo che vedo, e lucidare le mie tre paroline manco fossero argenteria.

Sono un po’ triste, come sempre quando le cose finiscono. E’ stato strano, questo passaggio di Scienziato. Mi ha lasciato con la sensazione a cui io mi rassegno meno, quella dell’impotenza. Cose stupide, inutili, e tuttavia irrisolvibili. Faccio davvero fatica a fare mia questa consapevolezza, a farla calare, ad andare oltre il semplice enunciarla: è troppo lontana dal mio modo di essere. Molto, molto più di una lingua straniera. Manco l’interculturalità mi serve. E sì che sono brava, io, a capire chi è diverso da me.

La Pupi mi ha fatto rotolare dal ridere, ieri sera: “Mamma, quell’uomo aveva tre precise funzioni nella tua esistenza: primo: farti da Uomo della Transizione dopo l’innominabile Mullah. Secondo: risolverti giustappunto i problemi che ti ha risolto. E terzo: sparire. Ha svolto egregiamente tutti e tre i compiti, quindi vedi di non rovinare tutto andandoti a cercare strascichi inopportuni. Dico sul serio, mami.” La Pupi in versione-donna mi fa morire: per una madre è uno spasso avere una figlia per amica. E comunque rischio il linciaggio, su questo argomento. Non c’è amico o parente che non ruggisca, ormai, quando sente nominare Scienzi. Un bagno di impopolarità notevole, ha fatto. Ed io lì che insisto: “Ma guardate che è intelligente, lo giuro!” E, niente: mi guardano come se fossi idiota e ruggiscono. Ok, vado in Egitto, va bene. Cambiamo aria, che è meglio.

Prima passo dal mio papà, però. Domani mattina vado da lui. Dall’uomo della mia vita, appunto. Perché, in effetti, è da un po’ che faccio confusione su questo. Da quando ha cominciato a venirmi la fissa degli uomini più grandi di me. Una pensa che siano protettivi come il fantasma del babbo che ti aleggia nell’inconscio, e invece no. Altro che protettivi: un guaio nero, sono. E Marzia: “Giurami che il prossimo non avrà più di 50 anni, perdinci. La devi piantare, la tua è un’assurdità. Lo vuoi capire o no, che oltre quell’età trovi cervelli arroccati con cui non ti capirai e non c’è niente da fare?” Poi però penso al fidanzato della mia prof, che di anni ne ha 70 ed è un amore, bello e brillante e splendido e intelligente e avvolgente e lo vorrei pure io, uguale. Solo che per la mia prof è quasi un coetaneo, lui. Per me non lo sarebbe e, forse, invece che splendido e protettivo sarebbe nevrotico e basta, con me. Boh.

Ci penserò dalla piscina del Marriott, dai.

Devo fare cose e, come sempre quando le cose sono troppe, invece di farle temporeggio. Mi porto i sandali col tacco alto oppure no? Pesano. Ma sì, dai. Anche se non ho voglia di papereggiare, quest’estate: la mia idea di serata consiste in un sacco di chiacchiere con gli amici di sempre davanti a qualche Sakkara, e basta. Le infradita bastano e avanzano, per un simile progetto. Però, dai. Massì. Li porto, sono i sandali più carini che ho. E poi l’indigestione di parrucchiere-manicure-pedicure-estetista e tutto l’ambaradan che farò lì, merita un paio di tacchi. Sarei una donna, che diamine, mica un’orsa.

C’è la valigia che mi guarda, la sento anche se le do le spalle. Potrei scrivere tutta la giornata, pur di non affrontarla. Non è detto che non lo faccia.