Ai bordi della strada per Mysore, uno spettacolo impensabile in un paese arabo: squadre di lavoratori che scavano il fossato che costeggia la statale e si dividono in coppie: un uomo e una donna, un uomo e una donna e così via. E te le vedi lì col sari e il piccone, questa qua, intente a scavare o a riempire sacchi di terra sotto il sole e ti chiedi quanta forza abbiano, esili come sono, e non è un bel vedere.
E poi foreste e ancora foreste, mucche e ancora mucche, scimmie e ancora scimmie, e per la millesima volta ti interroghi su come facciano, qua, ad avere problemi idrici quando c’è acqua e verde ovunque, e pure il monsone.
Li hanno, tuttavia, e anche gravi, e te lo ricordano un po’ ovunque, ti implorano di risparmiarne negli alberghi e, quando ci mostrarono una diga dalle parti di Periyar, ci spiegarono che in realtà era un pezzo da museo risalente alla dominazione inglese ma che per ristrutturarla avrebbero dovuto chiuderla e sarebbe stato un disastro con migliaia di persone all’asciutto e, insomma, le foreste e i ruscelli e le cascate e le piogge torrenziali convivono con la scarsità di acqua per la gente e, se non te lo dicessero, tu non ci penseresti mai.
E terra rossa. Più rossa di quella della Spagna, rossa che pare un campo da tennis ma, sopra, ci crescono le piantagioni del tè. Ogni tanto un villaggetto, coi baracchini di un rosso diverso, sponsorizzato dalla Vodafone.
Sul bus, stavolta, ci siamo solo noi e tre indiani, tutti e tre sordomuti. Uno di loro indossa la maglietta del Barça.
L’islam c’è, lo noti un po’ ovunque – nelle moschee qua e là, nelle ragazze con l’hijab al posto del sari, nei tuktuk e nei posti di ristoro dove sventola la bandierina verde o certi nomi appiccicati con l’adesivo: Bismillah, cose così. C’è un mucchio di islam, in India, e la viaggiatrice smarrita si chiede perché diavolo se lo siano voluto fare a tutti i costi, il loro Pakistan con tutto il casino che ne è derivato, se poi qui è pieno di gente che guida tuktuk chiamati “Bismillah”.
In una libreria di Fort Cochin sono rimasta a sfogliare un volume in inglese intitolato: “I musulmani indiani: cosa è andato storto.” Poi l’ho lasciato là, non l’ho comprato. Pesava, e comunque è sempre un chiedersi cosa sia andato storto, quando si parla di islam.
Da Ooty a Mysore è tutto un tornante, stiamo scendendo da un’ora e scenderemo ancora per parecchio. L’autista del pullman non sembra del tutto a suo agio con le curve e tende a frenare all’improvviso. Mi auguro che rimangano un bello spettacolo visto dal finestrino, questi Ghati Occidentali, ché mi scoccerebbe vederli mentre volo giù dal tornante. Bismillah.
Passiamo per Gudalur: una microscopica moschea all’entrata del paese, poi una grande chiesa cristiana, poi uno sgargiante tempio indù e, qualche centinaio di metri dopo, un’altra moschea più grande in costruzione. E, ad ogni angolo, le capre più tranquille della terra che dormicchiano o allattano i piccoli, e mi chiedo a quale religione appartengano i loro proprietari, ché se sono indù dovrebbero essere vegetariani, con grande giubilo delle caprette, e se sono musulmani possono mangiare solo gli animali adulti, non i cuccioli.
Se sono cristiani, invece, possono mangiarle tutte, madri e figlie, e rifletto su quanto sarei pericolosa io, per ‘ste povere bestie stese al sole.
(Un capretto arrosto ci vorrebbe, in effetti, dopo tanto curry….)
Il capretto arrosto..nooooooo!
E’ innocente. Poi se lo vedi vivo, come si fa poi a mangiarlo.
Mh, mi sa che gli indù possono, se non sono bramini o di casta molto alta.
Linus: ci hai ragione. Mi sono lasciata trascinare dalla predominanza del ristoro pubblico vegetariano che c’è da ‘ste parti. :)
Giulio: non potrei mai, lo sai. Però è bbbuono, il capretto arrosto….
..Quando mangio della carne non penso mai all’animale che era prima. Se dovessi farlo diventerei vegetariano.
Un Berlusca però … lo mangerei anche vivo.
:)