Uno dei motivi – se non il più importante – per cui la rivoluzione egiziana è stata assolutamente perfetta è perché si è saputa spiegare benissimo, su tutti i media e in prima persona. Cosa peraltro inedita, per un popolo arabo. Spiegandosi in prima persona, ha tolto la parola agli interpreti, analisti, commentatori e manipolatori vari che, da sempre e con fini di ogni genere, raccontano del mondo arabo ciò che meglio serve a favorire gli interessi del momento. Sbugiardati costoro e i loro decenni di analisi fuorvianti e vere e proprie balle, il mondo intero è stato costretto a prendere in considerazione, forse per la prima volta, l’ipotesi che in quel pezzo di mondo ci fossero persone in carne, ossa e intelligenza con cui fare i conti, e non più masse informi da temere e/o da imbrigliare.

Questa rivelazione, figlia della trasparenza, è recentissima e quindi fragilissima: ci vuole un attimo, per le nostre menti di occidentali, a ricoprire di nuovo Medio Oriente e Nord Africa delle consuete nebbie della non comprensione, a tornare ad investire l’interprete, l’analista di turno del compito di inventarsi la narrazione prossima ventura dell’identità dei nostri vicini di casa.

La confusione attorno a ciò che accade in Libia mi spaventa, quindi, non solo per la preoccupazione che tutti sentiamo di fronte a un dramma che cerchiamo di decifrare come possiamo, ma anche perché mi pare una confusione, un’opacità che rischia di allargarsi, nel nostro immaginario, di nuovo su tutto il Medio Oriente, e in primo luogo su quell’Egitto che tanto ha fatto per levarsela di dosso.

E’ banale, lo diciamo tutti dall’inizio ma vale la pena ribadirlo: la strada dell’Egitto è tutta in salita, il cammino che ha intrapreso è difficile e delicato e il paese ha bisogno di enorme attenzione. Abbiamo bisogno anche noi di prestargliela: non più o non solo perché “ci interessa” che il Medio Oriente stia tranquillo, ma perché – ironia della Storia – un bel po’ delle questioni che si affrontano lì sono le stesse che dobbiamo affrontare pure noi. Da quello che sarà il loro futuro potremo immaginare il futuro di molti di noi. Come dice Gennaro Carotenuto, uno dei pochissimi a mettere a fuoco la questione:

Dopo l’America latina e il Medio Oriente il disagio per un modello economico fallito come quello neoliberale che governava da Buenos Aires al Cairo e da Caracas a Tunisi, esploderà anche da noi e non è detto che la democraticità delle istituzioni possa fermare il crollo.

Dalla Tunisia di Mohamed Bouazizi alla Palermo di Noureddine Adnad (morti entrambi suicidi per protesta), la precarietà e l’esclusione accomunano locali e migranti. L’ingiustizia sociale e l’intollerabile disuguaglianza nelle nostre società ci torna a dire oggi quello che il pensiero unico si è incaricato per almeno due decenni di censurare: che la democrazia non ha senso senza eguaglianza e non esiste eguaglianza senza redistribuzione. Poco cambia che si nasca in Bolivia, in Algeria o in Italia.

L’Occidente, sempre meno centrale nel mondo multipolare e particolarmente indifendibile nell’appoggio a regimi autoritari, non ha in questo molte carte da giocare ma può trarre una lezione per la propria crisi che da economica si fa sociale.

In Egitto si sta parlando esattamente di questo:

Dall’inizio della rivolta, gli egiziani hanno dimostrato la loro assoluta determinazione a smantellare il vecchio regime e tutto ciò che era associato ad esso, tra cui le riforme economiche neoliberiste. Nel tentativo di placare la rivolta, Mubarak licenziò i ministri più esposti in queste riforme, compresi il primo ministro, quello del Commercio e il membro del NPD nonché miliardario Ahmed Ezz. Ques’ultimo sarà processato per corruzione.

[La lezione è che] i programmi di riforme economiche non sono sostenibili a meno che non siano accompagnati da un miglioramento parallelo delle condizioni politiche e dello spazio della legalità.

E a me pare che si parli anche di noi, non solo di Egitto.

Stesso discorso che fa AlJazeera quando parla di “Rivoluzione contro il neoliberismo“:

[…] è accaduto lo stesso nel resto del Medio Oriente, in America Latina, in Asia, Europa e Africa. Ovunque, le dottrine neoliberiste hanno dato lo stesso risultato: mantenere l’ideale utopico è impossibile. Gli indicatori formali dell’attività economica mascherano enormi disparità tra i ricchi e i poveri; le élite diventano i “padroni dell’universo”, fino a usare la forza per mantenere i propri privilegi e a manipolare l’economia a loro vantaggio, guardandosi bene dal vivere in nulla che somigli anche lontanamente al mercato imposto ai poveri.

Ci suona, no? Eppure, per quanto il discorso ci suoni familiare e ci riguardi, non mi pare molto messo a fuoco. Sarò distratta io, ma sento la mancanza di riflessioni in questo senso, di un reale tentativo di capire ciò che ci accomuna, pur tra le enormi disparità, tra le due sponde del Mediterraneo.

E mi fa paura l’idea che adesso, mentre il mondo è concentrato sulla Libia – un’attenzione fatta di emozione, più che di comprensione degli eventi contraddittori e oscuri che rimbalzano da lì – in Egitto e attorno all’Egitto prenda fiato una spinta controrivoluzionaria che, fino ad ora, ha fatto fatica ad organizzarsi. Dalle contraddizioni dell’esercito a certi episodi di cronaca che rimbalzano da Assyut al Sinai, dalle proteste nelle fabbriche allo stato di emergenza tuttora in vigore, l’Egitto richiede uno sforzo di comprensione, una vigilanza che, sui nostri media, si è affievolita parecchio se non è scomparsa del tutto.

Per giunta – ed è la cosa che mi mi piace di meno – la nostra scoperta della gioventù egiziana (del 42% degli egiziani, quindi, secondo dati delle Nazioni Unite) rischia di trasformarsi in una simpatia di maniera, in un incuriosito stupore destinato a sfociare in una versione riveduta e corretta del nostro consueto paternalismo. Qualcosa del tipo: “Ma che carini che sono, però adesso lasciate lavorare i grandi.” Forse c’è bisogno di ricordare che piazza Tahrir è stata il luogo simbolico, l’avanguardia della rivoluzione egiziana. Ma che la rivoluzione c’è stata in tutto l’Egitto e che, come Arabawi ha ribadito mille volte, il regime non sarebbe caduto in quel modo senza gli imponenti scioperi di massa che lo hanno buttato giù.

Non si fermeranno, gli egiziani. E la rivoluzione non è finita, è appena cominciata. Hanno bisogno di aiuto, e l’aiuto è in buona parte un’attenzione che non deve calare. L’Egitto è la capitale dei popoli che cercano dignità, in questo momento, e lo sarà, nel bene o nel male, ancora per un bel pezzo.

Aggiornamento: sulla confusa situazione in Libia, vedi anche Debora Billi.