Nella grande casa a Dokki in cui sono ormai sola – Julia e Felipe sono partiti e torneranno in autunno, ed è partita anche la gatta Salma, per quanto mi sembri di vederla in ogni angolo ed ho l’istintivo timore che graffi i divani nuovi della mia amica, ora sotto la mia responsabilità – trovo l’ultimo libro di Maruja Torres, come un ironico messaggio del destino.
Senti cosa dice della sua Beirut, Maruja:
Ma lo scopo di questo libro non è, dicevo, analizzare l’intreccio politico del Medio Oriente né la specificità libanese. Questa è solo una storia d’amore tra Beirut e me […] Come potevo non innamorarmene? Come avrei potuto non prometterle che sarei tornata per condividere la sua sorte, una volta e l’altra? Mantenevo questa promessa e, quando lo facevo, un pezzo di me rimaneva lì. Tornavo alla normalità del mio paese, dei miei amici e parenti, ma dentro di me la colpa gridava. Beirut viveva dentro di me con più forza del mondo saturo e presuntuoso che mi circondava e in cui mi rifiutavo di integrarmi, inquieta, preparando già un nuovo viaggio, un nuovo ritorno, il mantenimento dell’ultima promessa. L’odore e i suoni e le immagini di Beirut impregnavano ogni minuto – questo è l’amore, impregnarsi dell’altro, smarrirsi nell’altro – e, verso il resto, sentivo solo distacco.
Quando viaggiavo in altri paesi che pure mi son cari cercavo di condividere la mia Beirut con gli amici di lì, ma loro avevano già le proprie catastrofi. Solo quando tornavo nella città bianca e sepolcrale e follemente viva mi sentivo bene, mi sentivo completa, mi sentivo al mio posto.
Ed eccomi qui, al mio posto, nella Cairo che è la mia malattia incurabile, e passerò il prossimo mese e mezzo a non fare nulla, assolutamente nulla: a impregnarmi della città e del paese, semplicemente, a diluirmici dentro senza nemmeno più pensare, senza farmi domande che mi facciano male, sapendo che parlare, e interpretare e razionalizzare ciò che respiro è uno spreco di tempo, un puerile tentativo di controllo. E qui non c’è niente da controllare: né i miei sentimenti né, tanto meno, il senso di ciò che avviene in quest’estate di Primavera Araba, in questo Ramadan che si prepara, in questo paese vuoto di turisti che punta tutto ciò che ha su una scommessa, su una sfida che ancora non mi capacito che abbia potuto lanciare.
Lo stupore è ancora il mio sentimento dominante, quando sono in piazza Tahrir. “Ma tu guarda che hanno combinato. Ma chi lo avrebbe mai detto. Ma come hanno fatto, ma come è riuscito a succedere?”
Lo scheletro bruciato del vecchio palazzo del partito di Mubarak, accanto al museo Egizio. La piazza occupata in cui si concentrano tutti gli infiniti strati di cui è fatta l’identità della città, la politica, i venditori di tutto, la gente che ride e gioca e quella che piange i propri morti, i laici e le barbe, le famiglie che fanno lo struscio ed è come se avessero riscattato una piccola provincia nel cuore della megalopoli, come se il DNA egiziano avesse ricreato il paesello, il villaggio, e lo avesse incastonato nel centro della capitale, senza altra legge, senza altro controllo che il familiare, vecchio controllo sociale che le società più tradizionali della nostra esercitano affinché si stia tutti tranquilli e nessuno si faccia male: “Se ti becchiamo, o ladruncolo/teppista/baltageya, sono veramente cavoli tuoi.”
Sembra una festa di paese, piazza Tahrir, eppure è il centro del pianeta e, attorno, vigilano gli USA, Israele, i paesi arabi, noi tutti, chi come avvoltoio, chi sperando di lasciare un mondo un po’ meno schifoso ai propri figli.
Con Filippo, ieri sera, si diceva che sarà lunga, e la gente lo sa. Nella migliore delle ipotesi, la trasformazione dell’Egitto richiederà anni. L’ho detto mille volte: se la Spagna – europea, alfabetizzata, senza nemici e vicini pirateschi – ha avuto una transizione di 7 anni, quanti ne serviranno all’Egitto, con la sua povertà diffusa, con i suoi mari di analfabetismo e la corruzione elevata a sistema da prima che la maggior parte di loro nascesse?
Sarà lunghissima, difficile e- speriamo di no – pericolosa. “Si areneranno?” “Ma certo che si areneranno!” Ma poi andranno anche avanti. Ha forgiato una generazione, questa storia, ha cambiato le coscienze e ha creato quella che domani sarà la classe dirigente.
Bisogna stare a guardare e dimenticare i tempi televisivi, la fretta dei media, il consumismo dei risultati. Tempo, ci vuole tempo. L’Egitto ha partorito un bebè che deve crescere, in mano a 80 milioni di genitori inesperti. Ma vedrai che sopravvive, ne sono certa.
Penso alle manifestazioni che vedevo quando vivevo qui: 100 manifestanti e 1000 poliziotti armati fino ai denti, sempre. A piazza Tahrir circondata da divise nere, schierate in circolo dando le spalle al traffico, spettrali, e io che chiedo al farmacista della piazza: “Ma perché?” E lui: “Perché siamo in Egitto.” Al sempiterno senso dello spirito egiziano che ti permetteva di vivere qui dimenticando i desaparecidos, le torture, la gente imprigionata secondo l’arbitrio del potere, e il ladrocinio contro un popolo e quell’ultimo schiaffo del gas venduto sottocosto a Israele in cambio di mazzette, il cemento egiziano usato da Israele per fare il suo muro, l’infinito schifo dell’ingiustizia.
Ingiustizia che certo non è finita e chissà se e quando finirà: ma è finita la certezza dell’impunità di chi la esercitava, ed è da qui in poi che si costruisce.
Scrivo e mi guardo attorno: sono al Costa Coffee, in questo momento, e attorno a me è pieno di gente che scrive sul proprio computer. Il ragazzo di fronte a me ha un adesivo sul suo netbook: “January 25. I was there”. Di adesivi simili ne vedi ovunque: sui taxi, sulle macchine, sui portoni delle case, sui muri della città. E c’è un merchandising infinito, dalle magliette ai portachiavi a ogni cianfrusaglia immaginabile: Jan. 25, come un logo che non poteva non essere mercificato, in questo paese di commercianti, ma che dubito che finisca col perdere il suo significato, come non lo perdono i versetti coranici che, pure, sono venduti ad ogni angolo di strada da sempre.
La gente, intanto, è quella di sempre. Il cameriere, quando mi ha visto, mi ha ripetuto serio la mia ordinazione dell’unica altra volta che mi aveva visto, tre giorni fa: “Lo so, vuoi un caffè, un succo di mango e una brioche alla cannella.” “Uh, bravo!”, faccio io. E lui fa un ghigno alla Bogart e se ne va e io rido, ricordando che non c’è giorno che qualcuno non ti faccia ridere, in questa città. Poi, ovviamente, si dimentica di portarmi il tutto e io ricordo che non c’è giorno che qualcuno non ti faccia incazzare, in questa città. E comunque mi accampo, uso la loro elettricità, fumo felice, scrivo per due ore senza che nessuno faccia una piega, sonnecchio e guardo il traffico dalle vetrine, mi godo l’aria condizionata e ordino un’altra limonata alla menta. Sto pensando di andare al Khan al Khalili, ai luoghi del turismo, e vedere con i miei occhi le botteghe chiuse di cui mi hanno parlato, le saracinesche abbassate, la gente che non lavora da sei mesi perché i turisti hanno paura di venire e, qui, se non lavori non mangi. Per sei mesi, per chissà quanto tempo ancora.
Turisti benedetti, ma di cosa hanno paura? Come se non fossimo tutti nelle mani del destino, come se le autostrade italiane non fossero pericolose, come se un vaso non potesse cascarti sulla testa ovunque. Dai, venite. Che sarà mai? Era più pericoloso prima della rivoluzione, guarda: quando gli scagnozzi di Mubarak facevano scoppiare bombe ad Alessandria, a Dahab e ovunque per incolpare chissà quali ignoti terroristi e giustificare l’ennesima legge d’emergenza, riscuotere l’ennesima legittimazione dal solito Occidente spaventato.
Io sono scaramantica e non amo sfidare gli dei: la napoletana che è in me è certa che, se esagero a parlare di sicurezza, finisce che esco di qua e becco l’unico barbuto impazzito del Cairo che mi spara. Tuttavia, davvero, cosa mi rappresenta questa mancanza di turisti al Cairo quando, per semplice calcolo di probabilità, andare a Lloret de Mar mi pare tanto più pericoloso?
Finitela, dai.
Venite, che il mango è nel pieno della stagione e pure questa limonata con la menta è nettare divino.
Non fate i cretini, ché qui bisogna lavorare.
Che bello ma allora si sta di nuovo bene al Cairo! Quando ho letta “Costa Coffee” ho nutrito una certa invidia. Vorrei partire domani e poi penso: é sicuro con una bimbetta di 11 mesi?Forse devo aspettare qualche mesetto. Altrimenti adesso anziché stare qui al semi-freddo volerei piú che volentieri al Cairo e tuffarmi al Cilantro o al Costa, come mi manca l’aria dell’Egitto, l’aria del deserto e dello smog. Qui é tutto pulito e ordinato,e nessuno suona mai il clacson perché non sta bene!Sono contenta che almeno posso leggere tutte queste belle descrizioni, continueró a leggere, leggere e leggere.