Più ancora del malessere che senti guardando i titoli dedicati all’ultima frase a effetto della Fornero (“Gli statali siano licenziabili“) ti rimane attaccato quello che ti trasmettono le tante persone brave, in buona fede – e spesso giovani – che applaudono convinti.

Non voglio parlare della perdita generale di diritti e garanzie costati tanto a chi ci ha preceduto, né di impoverimento generale, perdita di ammortizzatori sociali, queste cose qua. Lo faranno, benissimo, un sacco di persone. Voglio parlare della specificità del servire lo Stato e del fatto che, questa specificità, non la ricorda davvero più nessuno.

Il mio nonno paterno era un professore di scuola, poi preside, che durante il fascismo venne mandato al confino in Sardegna perché, liberale, non volle giurare fedeltà al Duce. Mia mamma, quando diventò professoressa di ruolo, tornò a casa emozionata, con gli occhi che le brillavano, perché aveva giurato fedeltà alla Costituzione ed era certa di essere ormai un soldato dei tempi di pace. Anzi: “Sono equiparabile a un colonnello“, mi disse, con la sua faccetta ingenua e pulita. Io avevo otto anni.

Ho girato un sacco di scuole, nella mia zingaresca carriera, e qualche volta mi è capitato di avere cattivi presidi, o presidi così così. Poche volte, ché la scuola continua ad essere un’istituzione fondamentalmente sana nonostante tutto, ma qualche volta è capitato. Mi è successo di vedere cose brutte, di sentirmi chiedere di dichiarare cose non vere, di ricevere pressioni fatte di quieto vivere e non solo. Non mi è successo solo nella scuola di Stato, bada bene: mi è successo lì come nella scuola privata come all’università. La differenza, quando mi è successo nella scuola statale, sta tutta in quello che ho pensato guardando il dirigente che avevo di fronte: “Tu non sei il mio datore di lavoro. Il mio datore di lavoro è lo Stato.” Non si ha idea di quanta forza – e di quanto senso di responsabilità – ti dia un pensiero del genere, fino a quando non lo si prova.

Tu sai, semplicemente, che finché hai ragione – finché la legalità è dalla tua parte – non sei ricattabile, non ti si può intimidire, nessuno ti può fare niente. Tu lavori secondo coscienza e non temi nulla. Non rendi conto a nessuna gang, nessun gruppo di potere, nessuna dirigenza manipolatoria, non devi piegarti a nessuna logica che non sia quella dell’etica del tuo lavoro.

Perché poi, bada bene, non è vero che non siamo licenziabili: lo siamo, se siamo in torto marcio, e comunque ci si può rendere la vita molto difficile. Ma succede a livello di singoli casi. Non di sistema. Perché – attenzione – noi non dobbiamo a nessun Pinco Pallino la nostra assunzione. Nello Stato, il lavoro non viene concesso. Lo si vince. E lo si vince per pubblico concorso. La differenza con il settore privato è tutta lì. Noi non siamo designati a dito, non abbiamo figure a cui essere grati e non dobbiamo lealtà personale a nessuno. A nessun dirigente, a nessun ministro, a nessun governo. Noi abbiamo un contratto nazionale e rispondiamo alla legge. E ha senso, questa cosa. Ha moltissimo senso. Dovremmo saperlo, siamo il Paese che ha appena avuto Berlusconi, come si fa a non vedere come si potrebbe esercitare potere su di noi, una volta che siamo senza garanzie?

Avrà tutte le storture del mondo, un sistema in cui chi serve lo Stato risponde allo Stato e non a Pinco Pallo, ma sono storture molto più innocue di quelle che ci sarebbero altrimenti. E non mi pare un caso che la specificità della funzione pubblica sia riconosciuta in tutti i paesi che conosco. E’ una garanzia per la democrazia, pensa che concetto roboante. Perché, in un modo o nell’altro, facciamo tutti un lavoro che ha una forte ricaduta sociale.

Lavorare per lo Stato vuol dire essere al servizio di cittadini che sono tutti uguali davanti alle istituzioni. E questo è possibile a condizione che non ci si possa ricattare. Se li metti nelle mani dei singoli dirigenti, il nostro destino e la nostra sussistenza, il momento dopo ti si aprono dei baratri di discrezionalità in quello che fai. Succederebbe ovunque, figuriamoci in quella fucina di ogni mafia che è il nostro Paese.

Non mi spiego come sia possibile che un concetto tanto semplice, una realtà tanto evidente e importante, passi in secondo piano davanti alle parole d’ordine della lotta agli ipotetici fannulloni, davanti al caso del cugino che si è trovato male col tale impiegato, davanti a inefficienze che, se pure esistono (e certo, spesso esistono, ma altrettanto spesso sono cazzate date in pasto a un’opinione pubblica avvelenata) contano infinitamente meno del non sapere a chi deve obbedienza il servitore dello Stato che hai davanti. O chi deve compiacere.

Aggiungo un’ultima cosa, che riguarda in modo specifico il mio settore. La scuola si trova spesso alle prese con docenti che danno evidenti segni di squilibrio e/o di incapacità di gestire il rapporto con le classi. E’ il nostro caso classico di gente che “dovrebbe essere licenziata” e non si può. Bene: a me va benissimo che non si possa.

L’impazzimento, per gli insegnanti, è una malattia professionale, non diversa da quelle che possono prendere gli operai che respirano amianto. Giustizia e civiltà vogliono che l’operaio e l’insegnante non vengano buttati in mezzo a una strada, quando si ammalano. Il pubblico impiego, un tempo, prevedeva che i docenti inabili all’insegnamento venissero destinati ad altro incarico. Questa possibilità è ormai in via di estinzione e, anzi, si parla di tenerci in cattedra fino a 67 anni.E di licenziarci, ovviamente, se arrivati a 60 schiodiamo. Quando, per dire, in Germania ti riducono le ore di insegnamento frontale quando ne compi cinquanta, destinandoti, appunto, ad altri incarichi.

Allo stesso tempo, tutti i professori d’Italia – scuola e università, è lo stesso – hanno la consegna di promuovere quanta più gente è possibile, di selezionare il meno possibile. Portiamo avanti, quindi, gente che non è solo meno preparata di chi l’ha preceduta: è anche meno strutturata, meno capace di gestire le frustrazioni, meno consapevole dei propri limiti. Prepariamo cittadini sempre più fragili a cui lasceremo un mondo con sempre meno garanzie.

Mi pare che, spesso, siano proprio questi ragazzi, questi giovanotti, i più accaniti fautori dei licenziamenti altrui. Senza accorgersi di applaudire alla costruzione di un mondo di lupi in cui non è affatto detto che i lupi siano loro.