Stasera pensavo che se a suo tempo mi fossi davvero convertita all’islam – e la verità è che mi mancò un soffio e che continuo a pensare che non vale la pena di convertirsi a null’altro, se una si vuole convertire – mi sarei resa inadatta a qualsiasi tipo di residenza a Cuba.
Non è per l’alcool, per quanto l’Isola sia semi-incompatibile con qualsiasi velleità di rimanere astemia, e lo dico mentre mi verso dell’Aldabó ghiacciato, nettare degli dei, che Dio lo benedica. E’ per la carne di porco. Credo che chi non mangia maiale sia destinato a fare tanta di quella fame, a Cuba, che il paradiso se lo guadagna con una massiccia accelerazione. Cosa mangi, se non mangi maiale? Secondo me muori d’inedia, davvero.

Pure avere i disturbi alimentari, a Cuba, è difficile. Il binge eating è escluso, a meno che non esistano esseri umani disposti a fare abboffate a base di riso e fagioli. La bulimia, pure, manca della materia prima: qui non c’è cosa buona che non richieda di essere cucinata, e pure a lungo. La mangiata estemporanea, aprire il frigo e trovarci cose buone, mi pare completamente impossibile. A Cuba dimentichi i formaggi, gli insaccati, il pane, i dolci, tutto. Puoi mangiarti tutta la papaya che vuoi, quella sì. E, no, non dimagrisci. Per via dell’alcool a cui accennavo sopra.
Quanto all’anoressia, io credo che a Cuba si faccia troppa fame per potersela permettere. In un paese privo di sfizi alimentari, quando arriva l’ora dei pasti manco ti viene in mente di rinunciarci, e comunque le cubane hanno come modello estetico i corpi statuari delle loro mulatte, gessù che esagerazione, e per tenere su tutte quelle tostissime curve ci vogliono fagioli e maiale, altro che digiuni.
Cuba potrebbe quindi essere una palestra di rieducazione alimentare come poche al mondo. Se una fosse astemia, già.

Comunque oggi è arrivato un “frente frío”, un’ondata di freddo che siamo scesi a, boh, 20 gradi, e mentre uscivo dall’università rabbrividivo nella mia magliettina ed era buio, saranno state quasi le otto di sera, e tra i giganteschi palazzoni neoclassici delle varie facoltà, sparsi nel verde, pensavo che forse la Cuba che più mi affascina è quella dell’architettura e degli arredi, ma che non ho le parole per descriverla. Non è la mia preparazione, non riconosco i materiali, non so distinguere i diversi tipi di legno o di pietra e, per quanto riguarda gli stili, qua è tutto eclettico e come lo spieghi, sei completamente sovrastata. Dovrò studiare, temo, per dotarmi di una alfabetizzazione adatta al luogo, per raccontarmi l’inaudito di ciò che vedo.
Il fascino della persistenza. Tutto quello che nel resto del mondo è stato abbattuto chissà quando, o perso o venduto o bruciato o chennesò, a Cuba ce l’hai davanti, a pezzi ma ancora funzionante. Permane. E a te sembra di essere una clandestina nel tempo, di guardare delle cose che, in realtà, non avresti il diritto di vedere, che non sono della tua epoca, che quelli a cui era dato vederle sono tutti morti e tu stai sforando dai tuoi anni, sei una che è caduta qua da un mondo dove tutta ‘sta roba non esiste più da chissà quando e ringrazi il cielo per avere mantenuto la vista fino a oggi.

(Davanti a certe incongruenti e cadenti palazzine mudéjar di paseo del Prado mi arrendo e mi siedo, chiedendomi quanto ancora rimarranno in piedi. Tutto il tempo del mondo, sospetto.)

Se mai questa città dovesse essere davvero restaurata – e già quello che hanno fatto all’Avana vecchia è impressionante, quanto a restauro – altro che Patrimonio dell’umanità. Il pianeta intero con un cero in mano, voglio vedere sfilare all’Avana, a dire grazie a questa gente che non ha buttato niente.

Io, intanto, dopo avere passato la sera tra gli spifferi di una biblioteca vetusta, a frugare tra schedari ingialliti, a sentirmi nella bottega di un lussuoso rigattiere che cede ad altri gli oneri del restauro, tra una foto e l’altra del Che ad aggiungere incongruenza al contesto, mi chiedo quale sia il mio posto, in questa Cuba così ignota, così estranea.
Studiare, che altro.
Sarà meglio.