Il bus per El Salvador parte da Managua in piena notte e raggiunge Estelì, Nicaragua del nord, alle 6 del mattino. Bisogna aspettarlo alla pompa di benzina sulla Panamericana, ed eccomi lì questa mattina all’alba, fiduciosa, che mangio biscotti e scruto l’orizzonte in attesa di vederlo spuntare e intanto cazzeggio, gioco con le rotelle della valigia e le faccio le foto.

Tra il Nicaragua e El Salvador c’è un pezzetto di Honduras: alla frontiera, i poliziotti honduregni mi perquisiscono da cima a fondo, tasche e taschine comprese. Con grande gentilezza, assolutamente, e altrettanto scrupolo. Ripartiamo. Il ragazzo del bus mi porta un caffè con la cannuccia e mi rendo conto che ha senso: il bus sobbalza ma tu non te lo rovesci addosso. Poi, un paio d’ore di montagne e vallate dell’Honduras, bellissime, e mucche e cow boy, e poi all’improvviso una piccola discarica abusiva, dietro a una curva, e un tizio che butta chissà cosa e un gruppo di avvoltoi che, posati a terra tutto attorno a lui, lo osservano, e dalla discarica viene su del fumo ed è identico all’inferno. Giusto per ricordarti che non sei in un’idillica Svizzera del sud, no, anche se per un attimo ti era parso.
Frontiera con El Salvador, ancora paesaggi verdi. Vulcani. Baracche. Soldati armati fino ai denti. Appaiono dei murales che raffigurano Monsignor Romero, sulle mura di qualche chiesetta.

Passiamo davanti allo svincolo per la cosiddetta Ruta de la paz. Da quelle parti c’è El Mozote. Alla vigilia dell’attacco USA alla Siria, ricordarne la storia fa particolarmente male.
Successe che di prima mattina, poco prima del Natale del 1981, alcuni reparti scelti dell’esercito salvadoregno, addestrati negli USA, svegliarono gli abitanti del paese e li portarono nella piazza centrale. Uomini e donne furono separati e si diede inizio a una delle pagine più sadiche della guerra civile: donne stuprate, neonati uccisi a colpi di baionetta, addirittura gruppi di bambini rinchiusi nella chiesa e uccisi a mitragliate dalla finestre, come bersagli di un videogioco.  Poi bruciarono il villaggio. I morti totali furono 767.

Nei giorni prima del massacro, i guerriglieri del FMLN avevano avvisato la gente del paese che qualcosa poteva succedere, cercando di convincerla a fuggire. L’esercito, tuttavia, aveva tranquillizzato la popolazione e, anzi, aveva invitato la gente dei villaggi vicini a spostarsi a El Mozote, assicurando che era il posto più sicuro. Una trappola per massacrarli tutti assieme e così punirli per il presunto appoggio dato ai guerriglieri della zona.
Il massacro fu ampiante denunciato dalle stazioni radio del FMLN ma il governo USA (l’amministrazione Reagan, a proposito di governanti criminali) dichiarò che non era vero nulla e che si trattava di semplice propaganda. Solo negli anni ’90, a seguito degli accordi di pace, cominciarono a esumare i corpi. Delle 143 vittime rinvenute, 131 erano bambini.

Il Centro America è un ottimo punto da cui osservare i crimini e l’ipocrisia di oltre un secolo di storia USA. Più leggi, più ti chiedi come faccia l’inferno a non inghiottirli, come si possa stare al mondo avendo una coscienza così nera. Pagheranno mai, gli Stati Uniti, per quello che hanno fatto e continuano a fare al mondo?
Intanto continuo a guardare dal finestrino: mais, ancora vulcani, caffè, ancora baracche, povertà. Arriviamo alla capitale, infine, e il bus attraversa il centro e penso: “Madonna santissima!” e mi viene voglia di fuggire. Strade che sembrano incubi, degrado cupo, soffocante. Filo spinato dappertutto, rotoli e rotoli di filo spinato a proteggere qualsiasi cosa, pure l’ultima baracca. Sporcizia, grigiore, individui dall’aria allucinata, una donna stesa sul marciapiede che ride, guardie armate di mitra a ogni angolo.

Alla stazione di arrivo, la compagnia dei bus ha i suoi taxisti. In divisa, così da essere riconosciuti. Pare che prendere un taxi a caso, a San Salvador, sia assai pericoloso, e che ci si possa fidare solo di quelli che appartengono a determinate compagnie molto riconoscibili. C’è un’atmosfera paranoica contagiosa e reagisco nell’unico modo in cui so reagire, guardando malissimo il tizio a cui tocca portarmi in albergo e insistendo per farmi spiegare come mai ha tanti assassini fra i suoi colleghi. L’insensata conversazione che ne deriva, con lui che mi assicura che non mi ucciderà mentre io lo scruto severa, stempera la tensione. Il nonsense mi tranquillizza sempre.

Arriviamo nella zona dove c’è il mio alberghino e lo scenario cambia completamente. E’ una San Salvador parallela, fatta di viali colmi di centri commerciali scintillanti e di villette circondate dal verde e di ristoranti e di belle macchine. E di ancora più filo spinato e guardie col mitra. Praticamente, a San Salvador, chi ha soldi vive chiuso dentro nel suo quartiere e si spende i suoi dollari tra un centro commerciale e l’altro – tutto molto americano – mentre nel quartiere dopo c’è l’inferno. In mezzo, eserciti di guardie private.

Poso la roba in albergo e filo di corsa all’Università Centroamericana: voglio visitare il Centro Monsignor Romero e la Lonely Planet giura che lo troverò aperto. Mente, ovviamente. E’ chiusissimo e riapre lunedì, non farò in tempo a andarci e ci rimango male. Tanto, proprio.

E così sono finita a mangiare qualcosa nel ristorante accanto all’albergo assieme alla San Salvador bene: belle donne, bei bambini, uomini con l’aria di essere proprietari di cose, nessuno con i tratti indigeni.
Mi portano dei molluschi in certe conchiglie nere e bisogna controllarne la freschezza guardando come si agitano quando gli spruzzi il limone sopra.
Me li mangio tutti.
Trovo che sia un pasto coerente con il luogo, così crudele.