(Interrompo un attimo le cronache salvadoregne per un paio di aneddoti freschi di giornata.)

Mattina presto. Partiamo in minibus da Flores, in Guatemala, diretti in Messico. Siamo io, due ragazzi honduregni, un signore della stessa nazionalità e una bella donna nicaraguense col figlio ventenne dall’aria un po’ hippy.

Alla frontiera col Belice, i due ragazzi vengono trattenuti al bancone dell’immigrazione. Io chiedo il permesso di fotografare un poster che promette diritto d’asilo ai rifugiati e le guardie, gentilissime, addirittura chiudono il loro ufficetto con una tenda per permettermi di farlo. “Sa, è che noi in Italia li buttiamo in mare, invece.” “Ma sul serio?”, e ridono. I due ragazzi, sempre lì al bancone, isolati dagli altri.

Quando finalmente ci raggiungono, quasi un’ora dopo, hanno 350 dollari USA in meno. “Ci hanno accusato di non avere prenotato un albergo in Belice e, per quanto gli dicessimo che eravamo solo in transito, non hanno voluto sentire ragioni. Ci dicevano che dovevamo continuare ad aspettare e che forse tra qualche ora ci avrebbero detto qualcosa. Lo fanno apposta. Abbiamo chiesto come si poteva sbloccare la situazione, e ci hanno risposto che con 350 dollari. Americani. Glieli abbiamo dovuti dare, sennò ci rimandavano indietro e ci costava di più.” Quel che si dice un’estorsione in diretta.

Siamo tutti abbastanza incazzati, ovviamente, e tutti raccontano aneddoti sulla frontiera del Belice che pare avere una pessima fama e sarebbe sempre meglio evitarla, e il signore honduregno dice che comunque sono proprio quelli del Belice a essere una manica di stronzi e: “Non li posso proprio sopportare, negri del cazzo!”, e la signora nicaraguense: “Vabbe’, ma non è che sono stronzi perché sono negri, che c’entra!”, e così scorrono i chilometri e io, solidale coi fratelli latini, guardo in cagnesco il paese dal finestrino e però devo ammettere che ha dei paesaggi bellissimi. Non c’è un cane che me ne abbia parlato bene, devo dire, tra chi lo ha visitato, e comunque già da prima mi interessava poco. Ci rinuncio senza problemi.

Raggiungiamo la frontiera col Messico sei o sette ore dopo. Scendiamo per i controlli soliti, già pregustando arrivo, doccia e cena quando – sorpresa! – dal bagaglio del giovane nicaraguense un po’ hippy spuntano quattro semi di marihuana. Che il cielo lo strafulmini. Si scatena un delirio.

Siamo noi più l’autista guatemalteco in questo immenso salone. E basta. E poi ci sono i soldati, oltre alle guardie di frontiera. All’inizio erano solo due, i soldati. Poi ne sono arrivati altri, poi altri ancora – tutti in mimetica, occhiali scuri e mitra a tracolla –  poi degli ufficiali, poi mi pareva che l’intero esercito del Messico stesse circondando ‘sti quattro semi e intanto tutta la roba del ragazzo veniva passata al setaccio e ammucchiata ovunque, e gli trovano dei pacchetti di caffè e li aprono con un coltello e tutto si riempie di odore di caffè – buonissimo, e ripenso con nostalgia al Nicaragua lontano – e poi se lo portano via per spogliarlo nudo e intanto la madre è lì, terrea, con la faccia di una che vorrebbe morire oppure uccidere il figlio o entrambe le cose – e poi arrivano i cani che annusano noi e il pullmino ma, a quanto pare, le loro ricerche non sono soddisfacenti e quindi arriva SuperCane.

SuperCane è una specie di imponente pitbull che pare completamente pazzo e che, probabilmente, la cocaina la riceve al posto dei croccantini, sennò non te lo spieghi. Arrivano di corsa, lui e un istruttore che lo tiene stretto al guinzaglio, e abbaia, si contorce, si agita e digrigna i denti e un soldato si mette dentro al nostro pullmino e, da lì, comincia a stuzzicarlo agitando un panno e SuperCane impazzisce ancora di più, salta e abbaia -urla, anzi – con gli occhi fuori dalle orbite e, a quel punto, l’istruttore molla di colpo il guinzaglio e SuperCane si avventa sul minibus.

Salta sopra, salta sotto, corre tra i sedili, li scavalca, si getta sul posto del conducente, salta di lato su quello affianco, fa una piroetta per tornare indietro, esce e rientra di corsa, passa di sotto e di sopra, torna a entrare, torna a uscire e poi, sempre di corsa e abbaiando e ansimando, se ne va. L’istruttore lo abbraccia forte e insieme corrono via. Gli altri cani, che già avevano annusato tutto senza dare tanto spettacolo, osservano in silenzio e, secondo me, anche un po’ schifati. Io, che durante i primi momenti di isteria di SuperCane mi ero rassegnata all’idea di stare viaggiando in un pullmino di narcotrafficanti, torno a prendere in considerazione l’idea di potere essere prima o poi libera di andarmene.

La faccio breve: alla fine sono arrivati due ufficiali e ci hanno detto che, vista l’esigua quantità di stupefacente ritrovato, il ragazzo poteva andare e noi pure. Ma che sarebbe bastato pochissimo di più per fare arrestare lui e tutti noi che viaggiavamo con lui e pure l’autista. E che, comunque, ormai eravamo tutti segnalati, per colpa del ragazzo, e che d’ora in poi alle frontiere messicane ci avrebbero sempre controllato. Tutti. Io non so se ce l’hanno detto per mortificarlo e farlo sentire in colpa o se è vero. Sta di fatto che, quando finalmente siamo risaliti sul pullmino – ed erano passate ore, intanto – il ragazzino era talmente abbattuto che ti passava pure la voglia – quanto mai legittima – di linciarlo. “Era una scatolina dell’università, non ci avevo proprio pensato, mi ero proprio scordato di quei semi…”

L’autista ha urlato molto, comunque. Che lui era un autista perbene, che non aveva mai trasportato droghe o clandestini e che tutti lo conoscevano e che figura, e la sua povera reputazione. La madre, terrea e boccheggiante, che ringraziava il cielo che non gli avessero infilato di soppiatto dell’altra droga nelle borse, i poliziotti, ché “loro lo fanno”. E l’autista: “Certo che lo fanno! Secondo lei perché mi alzavo ogni minuto a controllare il pullmino??”

Io no, niente, non mi sono agitata molto. Però, questo sì, arrivata a Chetumal sono andata a festeggiare la ritrovata libertà. Gamberoni in salsa piccante in una trattoria vicino al mare e poi ‘sto post prima di dormire, così l’ho raccontata e non ci penso più. Vado a dormire, senti, ché è stata una giornata lunghetta.