Tra qualche giorno torno a Cuba, dopo un periodo trascorso in Italia a vegliare su mio papà, che si era infortunato, e su me stessa alle prese con un po’ di incombenze. E, proprio alla vigilia della partenza, sono incappata in questo libro pubblicato a metà 2013 e non ancora tradotto in italiano, che io sappia:

L’autore attraversa Cuba in treno, dall’Avana a Guantanamo. Da ovest a est, per quasi l’intera lunghezza dell’isola. Più facile a dirsi che a farsi, per una serie di ragioni che vanno dallo stato delle ferrovie cubane – tra le prime al mondo, un tempo, ma oggi molto malconce e quasi del tutto soppiantate dai più comodi pullman, per stranieri (Viazul) o per cubani (Astra) che siano – alla curiosa burocrazia isolana dei trasporti, per cui l’acquisto dei biglietti è soggetto a regole poco intuitive ma che prevedono in ogni caso infinite code e pazientissime attese.  Sta di fatto che lui ce l’ha fatta. E gli è piaciuto abbastanza da scriverci su un libro.

“Ma lo voglio fare pure io!”, mi sono detta. Io li adoro, i treni. E di reti ferroviarie scalcagnate ho una certa esperienza: dubito che quella cubana possa impressionarmi più di tanto. E quindi è deciso. Basta Avana per un po’, me ne vado a scoprire l’Oriente cubano. Atterrerò a Santa Clara e da lì, lemme lemme e un pezzettino alla volta, me ne vado fino a Santiago, quindi Baracoa a infine Guantánamo. Ché in  effetti, se ci pensi, nel passaggio dal mondo arabo a Guantánamo c’è una certa coerenza.

E quindi, niente: tra qualche giorno si torna nella terra della doppia valuta, del riso e fagioli, della buonissima birra che non posso più bere, delle poliziotte severissime in minigonna e calze a rete, dei sigari venduti sfusi nei bar, del caldo appiccicoso e delle piogge che trasformano le strade in fiumi, della nessuna concessione al comfort, della fame di cose buone perennemente insoddisfatta e dei cubani che a volte li ami e a volte li detesti, strana gente impossibile da chiudere in una definizione. Mi piace, l’idea di viverla in modo diverso dal solito.

La presentazione del libro dice così:

In this rambling odyssey set in the later days of the Castro regime, Peter Millar jumps on board the Cuban railway system, once the pride of Latin America. Starting in the ramshackle but romantic capital of Havana, he travels with ordinary Cubans, sharing anecdotes, life stories, and political opinions. Millar may not have all the answers but he asks a lot of the right questions on an anarchic, entertaining, and often comic adventure. A journey everyone will want to read about but nobody in their right mind would want to emulate!

“Un viaggio su cui chiunque vorrebbe leggere ma che nessuno sano di mente vorrebbe mai fare”, così dicono.
Ma no, perché, dico io.
Basta avere tanta, tantissima pazienza. Secondo me.
Io vado, insomma. Poi vi dico.

(Intanto ringrazio le persone che mi hanno scritto e quelle che ancora – eroiche! – ogni tanto passano di qua. Sono ancora viva, già. D’altra parte, se una in certi periodi ha poco da dire, tanto vale che stia zitta. C’è già tanto di quel rumore, al mondo.)