Notavo, prendendo spunto da quello che leggo sui vari socialini, che la visione più politicamente corretta sul conflitto palestinese è, attualmente, il silenzio. Un silenzio anche rivendicato, come unica risposta alla complessità, come generosa ripartizione di torti e ragioni che non può non tradursi in afasia e che, anzi, deve farlo. In omaggio a una qualche par condicio del pensiero.

Come riflettevo altrove, però, nessuno si sogna di dire che, chessò, di fronte alla tragedia del Ruanda, la posizione giusta da assumere era quella del silenzio. O di fronte a qualsiasi altra tragedia politica e sociale, passata o presente. Da quando, mi domando, di fronte alle grandi tragedie politiche, la risposta più eticamente corretta è il silenzio? E soprattutto – soprattutto – a chi o a cosa serve, il silenzio?

Servisse a qualcosa di pratico, davvero, il silenzio sulla questione palestinese. A qualcosa di più utile del semplice sollievo dalla stanchezza personale di chi si è assai sgolato al vento. Servisse a qualcosa di serio, questo non pensare, non guardare, non fiatare. Questa presunta imparzialità che, come ogni imparzialità, serve solo a perpetuare lo status quo.

E servisse a qualcosa di pratico, seguendo il discorso, la perpetuazione dello status quo all’ombra del silenzio di noi tutti.

Servisse, chessò, anche solo a risolvere cinicamente il conflitto attraverso lo sterminio di ogni singolo palestinese. Sarebbe una soluzione come un’altra, a ‘sto punto: mentre noi guardiamo, tutti insieme, dall’altra parte, voi li sterminate tutti e poi, oplà, niente più palestinesi, finito il problema. Ci scandalizzeremmo per tipo, due minuti, fino al prossimo mondiale di calcio, e poi avanti verso una vita felice.

Perché ci sono solo due modelli di conclusione per la questione palestinese, a mio parere: il modello sudafricano e quello statunitense. Degli indiani d’America, dico. La soluzione “due stati per due popoli” è una cazzata, lo sappiamo tutti e gli israeliani più di tutti. Basta guardare una cartina, per saperlo. Basta immaginare, in una prospettiva di secoli, che mostruosità sarebbe la conservazione a oltranza di uno stato etnico. Le leggi per preservarlo, le politiche. L’ottica religiosa sempre più estrema. In una prospettiva di secoli, ché gli Stati si suppone che debbano durare. E’ una cazzata, dai. Per giunta terrificante per gli israeliani stessi. Io non credo che ci vorrei vivere, in uno stato etnico italiano armato fino ai denti, nei secoli dei secoli, con tutti che ci sposiamo tra di noi per preservarci identitariamente e via dicendo.

E quindi, niente: Sudafrica, ovvero tutti a convivere e un voto a testa, oppure Stati Uniti, con pochi indiani sopravvissuti nelle loro riserve. Ovviamente, nei desideri più o meno confessabili di molti di noi, l’epica dei cowboys, coi palestinesi al posto degli Apaches, è più appetibile di un mondo in cui i negri che votano sono più dei bianchi. Lo capisco.

Il problema è che la società araba è più vitale, demograficamente, culturalmente e linguisticamente, di quanto non fosse quella dei pellerossa quando combattevano. Anche depauperandola culturalmente ed economicamente, distruggendone scuole e infrastrutture, tutto ciò che ottieni è peggiorarla, renderla in prospettiva più spiacevole e puzzolente, ancora più negra. Ma, numericamente, non la abbatti. Continuerà a stare lì.

Nemmeno con un programma massivo di sterilizzazioni, credo, si risolverebbe il problema. O forse sì, chissà. Pensiamoci, ma c’è sempre il problema della diaspora che, per giunta, non smette di avere la fissa del “diritto al ritorno”. Per andare a sterminare quelli bisogna passare al pettine fitto il pianeta intero, ce n’è fino in Cile, fino in Perù. Tantissimi in Giordania, Siria, Libano e via camminando. Mo’ ti voglio, a sterilizzarli tutti. Come fai.

E quindi, alla fine, la soluzione del conflitto sarà il modello Sudafrica. Noi non lo vedremo, purtroppo, ma non esiste altra possibilità. Israele ha già perso, ha perso dal primo giorno. Perché l’ha impostata male, troppo male. Non era il posto giusto, la Palestina. Lo dicono i fatti, non lo dico io. Lo dicono i morti a milioni che ‘sta scelta è costata da quando è stata fatta, in tutta la regione, in un effetto domino che, a prevederlo allora, magari avrebbe fatto cambiare idea pure al più sfegatato dei sionisti. Ma è andata così, e non c’è buon senso che non obblighi a prevedere che non esiste via d’uscita che non sia il Sudafrica.

Siccome lo sappiamo, i morti di oggi e quelli di domani sono doppiamente insopportabili. Perché muoiono, e perché muoiono inutilmente, senza che cambi di una virgola ciò che è già scritto. Quanto debba essere ancora lunga, ‘sta strada lastricata di morti che porterà all’inevitabile traguardo senza alternative, dipende solo da noi. Siccome siamo gente cattiva e stupida, sarà lunghissima.