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Rimangono beduini che spazzano via le macerie del proprio paesello, per esempio, e rimane pure lo stato di emergenza in Egitto, prorogato domenica scorsa di altri due anni in nome della lotta al terrorismo.

Venticinque anni già trascorsi, più altri due ancora da trascorrere e fanno ventisette.
Anni.
Ventisette anni di emergenza, pensa te, ma in una simile situazione generale mi pare il minore degli ossimori, questo.

Rimangono i beduini a protestare la propria innocenza (qua finisce che mi ritrovo col Mukhabarat sotto casa, se continuo a farlo presente, e questo mi ricorda che ho quasi finito il tè e la menta e devo ricomprarli, e meno male che ci ho pensato, ché non si sa mai) e rimane un cui prodest tutto interno che, a quanto mi dicevano poco fa al telefono, comincia a farsi strada pure sulla stampa e tra l’opinione pubblica egiziana, ché ‘ste bombe di Dahab hanno ciccato la stagione turistica ma, in compenso, il rinnovo delle leggi speciali lo hanno preso in pieno. Tu pensa che mira bizzarra.

Chiedo: “Ma insomma, cosa si dice?”
E mi spiega che hanno già messo la sordina (“Lo sai, come al solito”) e che sulla colpevolezza dei beduini (dai, ribadiamo i sottotitoli: beduini intesi come soggetto politico, non come eventuali tizi più o meno ricattati e/o comprati) le opinioni sono divise, e c’è chi crede che siano stati loro e chi invece parla di strategia della tensione, interessi privati e via dicendo.
“E in che ambienti se ne parla?”, chiedo.
E lei, col tono di chi dice la cosa più ovvia del mondo: “Ma è trasversale, lo dicono un po’ tutti. Ne parla la stampa, ne ha parlato Al Jazeera…”

Al Jazeera (la tv, più che il sito) ha pochi peli sulla lingua: è passato esattamente un anno da quando scansai per puro caso la bomba del Khan al Khalili e scrissi questo:

Seguire Al Jazeera con Pepe che traduceva è stato molto, ma molto istruttivo: hanno detto, senza mezzi termini, che è probabile che la bomba sia una risposta del governo alle manifestazioni pro-riforme che ci sono state qua. Strategia della tensione, insomma […] Lo ha detto Al Jazeera alle 9 di sera, più volte, intervistando in studio un signore egiziano che diceva la stessa cosa: risposta del governo alle manifestazioni, freno alle riforme.

Cosa rimane del clima di un anno fa.
Ti ricordi, c’era Kifaya, gli studenti in piazza, quell’atmosfera cauta ed elettrica, quell’aspettativa da “tutto può succedere”.
E guarda adesso:

Quello che succede al Cairo, in effetti, deve far preoccupare. Non solo gli Usa, ma anche l’Europa. Quello che succede al Cairo, denuncia il cartello che riunisce le più importanti associazioni di difesa dei diritti umani del paese arabo, è una nuova ondata di arresti di esponenti delle opposizioni. Retate che non colpiscono solo i Fratelli musulmani, bersaglio privilegiato da anni. A finire in cella, in questi ultimi giorni, sono però anche i liberal. Soprattutto gli esponenti di Kifaya, il movimento di protesta nato dal nulla, e che durante tutto il 2005 si era distinto per le manifestazioni piccole ma quasi quotidiane nel centro della capitale egiziana. E persino il corrispondente di Al Jazeera al Cairo, Hussein Abdel Ghani, trattenuto per due giorni e liberato solo su cauzione per aver diffuso notizie false che hanno infangato l’immagine dell’Egitto.
Il tam tam degli attivisti, facilmente consultabile anche via internet sui blog che ancora fioriscono, fa nomi e cognomi degli arrestati. Ci sono anche studenti della media borghesia, quelli che non frequentano i circoli islamisti e che fanno i bravi allievi all’American University del Cairo. Sono finiti, tutti insieme, in cella, e la rete degli amici sta pensando a come far avere loro i libri per prepararsi agli esami universitari. […] nessuno ha capito, sinora, la cosa più importante: se qualcosa sta succedendo dentro i ranghi delle forze militari e delle forze di sicurezza, oppure se l’esercito è compatto attorno a Mubarak.

E poi (cambiando discorso, o forse no) mi racconta, la collega, che l’aviaria è sbarcata in Egitto con tutta la forza (venti regioni su ventisei) che si poteva prevedere in un paese in cui cammini per strada scansando polli a spasso, in provincia, o trattenendo il fiato di fronte alle gabbie stracolme di volatili e piume volanti del miliardo di pollerie del Cairo, ché nei paesi dove non si mangia maiale l’alternativa economica è il pollo, dico io, e fino a qualche mese fa incrociavo le dita, di fronte all’onnipresenza delle galline, e pensavo: “Non in Egitto, ti prego. Ti immagini che catastrofe sarebbe?”
Ed è arrivata, che dubbio c’era.
“Le pollerie si sono trasformate tutte in pescherie!”, mi dice la collega, ed entrambe pensiamo all’infinita lotta per restare vivi che non smette mai di andare in scena, nel nostro paese preferito, e a me torna in mente quella volta che calarono le cavallette dal cielo, al Cairo, e io me le persi perché la mattina non mi svegliavo manco coi castighi biblici, a quel tempo, e poi mi ritrovai le scale di casa tappezzate dei loro cadaveri.

Non smette mai di essere bastonato, quel pezzo di mondo lì.
Chissà che peccato ha commesso.

E oggi mi è venuta una specie di crisi isterica fredda, in classe, ché ho questo gruppo di cinque studenti ed erano senza quaderno e senza penna, come al solito, e non li ho retti più e glielo ho detto: “Vergognarvi, dovete. Ma chi vi credete di essere, a fare i parassiti per anni a spese della comunità allo scopo di strappare, per pura pietà o stanchezza dei vostri insegnanti, un pezzo di carta che certifichi competenze che in realtà non avete affatto – e manco le volete avere – che vi serve solo per sfuggire al lavoro fisico e passare la vita senza sporcarvi le mani, senza andare in miniera, senza zappare la terra, ché in miniera o a zappare ci devono andare gli extracomunitari, certo che sì, ché voi siete bianchi e volete tenervi pulitini, sopra l’ignoranza che rivendicate, e che importa se chi va a zappare dimostra palle che voi non avreste neanche in venti vite, attraversando mari e frontiere per andare a lavorare mentre voi vi stancate a caricarvi di una penna. E forse tanto vale regalarvelo davvero, il diploma che pietite, ché non vorrei mai che, per causa mia, vi ritrovaste a rubare il lavoro a chi se lo merita, agli immigrati, strappando il pane di bocca a loro, facendogli la concorrenza nelle miniere o nelle campagne protetti da una mera cittadinanza che vi è piovuta in testa per caso. Meglio di no. Meglio continuare la finzione delle vostre competenze da ufficio col riscaldamento e la macchinetta del caffè e permettere a chi non ha paura di sporcarsi le mani di progredire, mentre voi avete 18 anni a stento e siete già inutili e bolliti.”

Questo, gli ho detto.
Già.
Sì, non ci ho visto più.
E loro: “Ma prof…”
E io: “E la cosa peggiore è che siete talmente mosci che non vi servirà manco di stimolo, questa mia rabbia. Vi abbatterete solo un po’ di più. Vi farete solo più mosci. Altro che attraversare il Mediterraneo su una zattera, altro che inventarsi la vita e il pane in capo al mondo. Mosci. Solo una mutanda arancione di Calvin Klein vi potrà consolare, ché tanto quelle stanno su da sole, non c’è bisogno di sollevarle come si fa con le penne. O con le zappe.”

E poi: “Uhm. Dite che sono stata un po’ dura..?”
E loro: “Prof…”

E’ che l’anno scorso non ce l’avevano la mutanda di Calvin Klein, i miei alunni della campagna egiziana, e mi inseguivano per farsi correggere chilometrici compiti che nessuno gli aveva chiesto di fare e non è mai successo che qualcuno non avesse la penna. Figurarsi una classe intera.
E a me è venuta la nausea a pensarci.
Sono umana.
E basta.

Non lo so cosa rimane di tutti i tentativi di rinascita, di riscatto, di desiderio di una vita vivibile che vedo morire da non so più quanto tempo senza che nulla di bello riesca a sostituirli, a durare quel tanto che basta per attecchire.
Posso chiudere gli occhi e spremerla fino a sfinirla, la mia fantasia, ma il mondo tra dieci anni non lo riesco a immaginare.
Una nebbia nera, vedo.
E la disfatta del rimanere in quattro gatti a cercare di vivere bene sulle macerie altrui. A comprare mutande arancioni.
Pensa te.
Con gli specchi oscurati, spero, ché guardarsi non sarà un bel vedere.

E poi rimane lo spettacolo dei vecchi compagni di viaggio che, applauditi dalla stessa gente che l’altro giorno diffondeva i tuoi dati personali sulle liste filoisraeliane, ti comunicano che sei una “neocon involontaria”, nientemeno.

Ma questa, tutto sommato, è la vita. Da migliaia di anni, da sempre. Una non si turba più di tanto, quando sente odore di natura umana.
Ci vogliono mostri di altra portata, per farti stare sveglia di notte.

Nel “Continua“, la traduzione dell’articolo sul prolungamento dello stato di emergenza in Egitto pubblicato da Le Figaro.

L’Egitto prolunga lo stato d’emergenza

Il parlamento ha prorogato per due anni supplementari le leggi di emergenza in nome della lotta contro il terrorismo.
In Egitto, il provvisorio e’ fatto per durare. Una settimana dopo gli attentati di Dahab, il Parlamento ha votato domenica la proroga per due anni delle leggi di emergenza, un regime eccezionale in vigore fin dai tempi dell’assassinio del presidente Sadat, compiuto da un commando islamista nel 1981. Concepito in origine per lottare contro il terrorismo, questa legislazione restringe le libertà civili, permettendo arresti del tutto arbitrari. Secondo le organizzazioni dei dirittti dell’uomo, piu di 10.000 persone sarebbero attualmente detenute senza giudizio in Egitto. Fortemente criticata da tutta l’opposizione, che reclama la sua abrogazione, la legge d’emergenza e’ servita, nel corso degli ultimi venticinque anni, a soffocare ogni forma di contestazione politica e sociale.
Al momento della campagna per le presidenziali di settembre scorso, Hosni Mubarak si era impegnato, per la prima volta, a sostituire lo stato d’emergenza con una nuova legislazione antiterrorista.
Incoraggiati da questa promessa elettorale, gli oppositori hanno reclamato ancor piu’ la sua abrogazione, a cominciare dai Fratelli Musulmani. “Il governo utilizza questa legge per far tacere l’opposizione”, ha accusato Mohamed Habib, uno dei dirigenti della confraternita islamista. “Non utilizzeremo mai questa legge per altro che la protezione dei cittadini, la sicurezza della nazione e la lotta contro il terrorismo”, gli ha replicato il primo ministro Ahmed Nazif. “Due anni di piu’, non e’ molto, tenuto conto delle minacce alle quali dobbiamo far fronte”, ha sostenuto. Il mese scorso, Hosni Mubarak aveva avvertito che ci sarebbero voluti fino a due anni per elaborare un nuovo testo anti-terrorista, senza spiegare le ragioni di un tale ritardo.
Gli scontri tra cristiani e musulmani ad Alessandria e gli attentati di Dahab (18 morti) hanno permesso al governo di giustificare il mantenimento delle leggi di emergenza, mentre tre sospettatati sono già stati uccisi domenica nel Sinai. “Lo stato d’emergenza non mette fine al terrorismo, ma facilita il compito delle forze dell’ordine”, ha affermato Ahmed Nazif.
Per Hugh Robert, direttore dell’ufficio del Cairo dell’organizzazione International Crisis Group, si tratta di un falso pretesto. “Non c’e’ stato terrorismo in Egitto tra il massacro di Luxor, nel 1997, e gli attentati di Taba, nell’ottobre 2004, e la legge di emergenza nel frattempo non e’ stata abolita”, rileva il ricercatore britannico. “Il suo mantenimento si traduce in un approccio puramente di sicurezza agli attentati nel Sinai, mentre esistono chiaramente dei fattori socio-economici che richiederebbero una risposta politica , per la quale la legge di emergenza costituisce al contrario un blocco”.
Secondo Hugh Robert, la reticenza quasi viscerale del potere a rimuovere lo stato di emergenza trova dunque le sue radici altrove, e notoriamente nella “sua paura di sommosse popolari spontanee”, come quelle scoppiate nel 1977 dopo il rialzo del prezzo del pane, e la sua volonta’ di “controllare con tutti i mezzi l’accesso allo spazio pubblico”.

http://www.lefigaro.fr/international/20060502.FIG000000033_l_egypte_prolonge_l_etat_d_urgence.html